martedì 31 maggio 2016

LA QUARTA PARETE (Da Plauto a Deadpool il passo e' breve, o no?)

 
Tra il mondo reale e quello di finzione, esiste convenzionalmente un sottile, etereo  diaframma, che ne definisce le distanze  e ne delimita i confini, rendendoli cosi' di volta  in volta opportunamente superabili.
Questa cosiddetta "Quarta Parete" avverte lo spettatore che cio' che sta guardando e' pura  immaginazione, ne rivela l'artifizio scenico, e rende palese quel gioco delle parti che si  deve per forza accettare per procedere oltre.
Potrebbe essere fisicamente rappresentata dal sipario, dallo schermo cinematografico, dalla  pagina del fumetto, ma piu' opportunamente e' una divisione della mente, una nostra  proiezione metafisica, necessaria per compiere il grande salto verso il "Mondo Oltre".
Una qualsiasi rappresentazione della realta',  diventa per noi oggetto vivo e pulsante solo  quando decidiamo volontariamente di accostarci alla quarta parete, che sia per interesse o  solo per curiosita'. Questo concetto, concreto e fondamentale in ogni rapporto pubblico/spettacolo, ha origini  lontane.
Il teatro
La rappresentazione teatrale e' una delle piu' antiche tecniche di spettacolo.
La tragedia greca nasce dalla necessita' di organizzare drammaturgicamente cerimonie e riti  religiosi. In queste manifestazioni popolari, inizialmente il Coro Greco era l'unico protagonista,  presentando e narrando le gesta della divinta' che si stava festeggiando.
Quando si comincio' a strutturare queste rappresentazioni entro un canovaccio codificato, ampliandone le tematiche con racconti sulle gesta degli Eroi, fu necessario introdurre una nuova figura : l'attore, che dal quel  momento in poi diventa il vero nucleo pulsante della vicenda.
L'origine greca del termine attore (hypocrites), ne evidenzia la natura dualista :  e' il bugiardo la cui menzogna diventa per lui, e per noi si accettiamo l'inganno, l'unica momentanea realta' possibile.
Quindi il Coro, scippato della ribalta, assume il ruolo, altrettanto importante, di  intermediario tra pubblico e rappresentazione, che,  come una vera e propria didascalia  vivente,  presenta agli spettatori la trama e il suo svolgimento, e nel contempo  dialoga anche con gli attori stessi.
Era la personificazione della quarta parete, la dichiarazione che quello che si sta  assistendo e' solo una rappresentazione del vero, qualcosa di fittizio che ha la sola  ambizione di intrattenere lo spettatore.

Mentre molti autori greci o romani difendevano strenuamente questa netta distinzione,  altri come Plauto, decisero subito di rompere con le convenzioni, creando nuovi stimoli  per il proprio pubblico. Nelle commedie plautine, la rappresentazione si interrompeva momentaneamente, e l'attore, nelle fittizie vesti del protagonista,  iniziava a dialogare direttamente con gli spettatori, coinvolgendoli nei propri dubbi o  nelle proprie scelte, e cercando di instaurare con essi una sorta di complicita'.
Un altra innovazione che egli introdusse, fu il cosiddetto "metateatro" che, come un vero e  proprio gioco di scatole cinesi, incastonava uno spettacolo teatrale secondario all'interno  di quello principale, magari nella forma di una semplice beffa, con lo scopo di coinvolgere  il pubblico nel gioco della messa in scena.
La distanza tra il fruitore (passivo) e l'attore (attivo), cominciava ad accorciarsi,  il loro rapporto a farsi piu' intimo ed indistinto.
Ovviamente questa operazione aveva l'unico scopo di divertire e sorprendere.
L'artifizio metateatrale, verra' successivamente ripreso, tra i tanti, da Shakespeare in  alcune sue commedie come ad esempio l'Amleto, e da Pirandello, soprattutto nel trittico  del "teatro nel teatro", evidenziando, in questo infinito gioco di specchi la perdita'  d'identita' dell'uomo moderno, il suo annaspare alla ricerca di un proprio ruolo, o di  qualcuno che lo rappresenti, nella vita come nella finzione scenica.
Nella commedia "Questa sera si recita a soggetto" ad esempio, gli attori sono inizialmente parte  integrante del pubblico in sala, il quale viene coinvolto, prima di assistere alla rappresentazione vera e propria,  alle varie diatribe dietro le quinte tra essi ed il capocomico su come attuarla.
Anche il cosiddetto "congedo", presente ad esempio in molte commedie goldoniane, dove  l'autore, o la compagnia teatrale, chiude la rappresentazione congedandosi con il proprio  pubblico in una esplicita richiesta di conferma del suo apprezzamento, e' una  rappresentazione della quarta parete, L'attore, dismessi gli abiti della finzione,  rivela la sua vera natura, e quindi quella della finzione stessa.
Quando invece a farlo e', come nella commedia dell'arte,  la maschera stessa, nel suo duplice ruolo di personaggio e protagonista (vero anticipatore  della serialita'), ha la valenza di una vera e propria picconata al muro divisorio tra realta' e finzione : "Io sono vero, afferma Arlecchino, non meno di te!".
Ma si dovra' attendere l'avvento del cosiddetto teatro dell'assurdo, e soprattutto delle  successive avanguardie, per vedere crollare ogni residua impalcatura precostituita,  non solo dal punto di vista drammaturgico, ma anche come organizzazione scenica.
A questo punto le pareti, tutte, si dissolvono, creando un amalgama perfetto tra attori e spettatori.
Il cinema
Il primo contatto tra pubblico cinematografico e quarta parete, fu drammatico.
Il piccolo "scherzo" organizzato dai fratelli Lumiere nel lontano 1895 in uno dei loro  primissimi films, che vedeva un treno dirigersi verso gli spettatori, sorti' ampiamente  l'effetto voluto, o cosi' almeno afferma la leggenda, e molti fuggirono allarmati per la  paura di venire travolti.
Vero o no, si puo' considerare questo l'esordio della quarta parete nell'ambito  cinematografico :  dopo i primi comprensibili momenti di sconcerto, essa rivelo' la sua  natura, ed assunse pienamente la sua importante funzione tranquillizzante : il treno e'  finto, nessuna paura!
Nel 1914, un piccolo uomo in frac, a cavallo del suo superbo destriero, supera per la prima  volta la barriera tra il mondo reale e quello fantastico.
L'uomo in questione e' Winsor McCay, famoso creatore del personaggio di Little Nemo,  con cui aveva gia' rivoluzionato il neonato fumetto, rielaborando lo schema a vignette  col metro della sua inestinguibile fantasia; la sua imponente cavalcatura e' un enorme brontosauro di nome Gertie.
Il cortometraggio "Gertie, il dinosauro", e' uno dei primi esempi  di cartone animato,  ed il primo in assoluto dove si utilizza la tecnica mista, in cui l'animazione si amalgama  con le riprese dal vero.
Nel breve filmato, un gruppo di amici, fra cui Geo McManus, l'inventore di Arcibaldo e Petronilla,  si riunisce per assistere alla esibizione di Gertie, che, come in un vero e proprio numero  da circo prende vita dai disegni di McCay, ed inizia a scorrazzare nel suo fittizio  universo preistorico.
Alla fine, il suo autore, e domatore, balza nell'immagine, e saluta  il suo pubblico di amici, uscendo di scena sul dorso dell'animale con un ampio gesto di commiato.
Noi osserviamo la scena come sbirciando dal buco della serratura, nell'apoteosi della  rappresentazione della quarta parete, ma nel contempo, assistiamo anche al suo  disgregarsi all'interno della scena, quando il confine tra mondo reale e fantastico si  dissolve, e McCay diventa parte integrante del cartone animato.
Il cinema, proprio per le sue peculiarita' espressive, si presta particolarmente a questi  giochini visivi, ed il successivo avvento del cinemascope e soprattutto del 3D, ha sempre  piu' accorciato le distanze tra spettatore e spettacolo, modificando e distorcendo la quarta parete, e arrivando in alcuni casi ad annullarla, almeno temporaneamente.


Gli esempi sono mille : dagli sguardi complici ed imploranti di Oliver Hardy verso il suo  pubblico dopo l'ennesima catastrofe compiuta da Laurel; alla vivisezione della macchina/cinema compiuta da Alejandro Jodorowsky alla fine del suo "La montagna sacra", che dopo due  ore di elucubrazioni pseudo filosofiche sulla ricerca dell'immortalita', si rivolge agli spettatori rivelando la natura  fittizia dell'operazione, e scoprendo le quinte di microfoni e macchine da ripresa; fino a  Mel Brooks che utilizza questo scambio tra realta' e finzione con scopi puramente ludici  (nel suo "Alta tensione", la veloce zoommata verso la finestra oltre la quale i due  protagonisti stanno dialogando, finisce per infrangerene il vetro).
Il recente "Hardcore Henry", utilizza la tecnica della ripresa in prima persona come nei  migliori sparatutto da consolle, tentando di coinvolgere direttamente lo spettatore  nell'azione.
"Hardcore Henry"
Il perfido Frank Underwood,  interpretato da Kevin Spacey nel serial "House of cards",  spesso si rivolge direttamente al suo pubblico per renderlo partecipe, e connivente,  delle proprie macchinazioni.
L'ormai inflazionata moda del finto documentario nata con "Blair Witch Project" (esperimento multimediale sostenuto da una efficace campagna promozionale che  ne sosteneva la veridicita'), e proseguita con altri mille cloni (che sfruttano le riprese POV -point of view- per renderci diretti protagonisti degli orrori filmici, ed amplificare l'effetto suspense), e' un tentativo  di nascondere la quarta parete dietro un apparente realismo.
Gli esempi sono davvero tanti, almeno 400, e sono stati raccolti in un piccolo video che  qui riporto.


Ma rimangono, per opposti motivi, nell'immaginario collettivo due finali cinematografici dal forte  impatto :
lo sguardo tenero e sconsolato di Frankestein jr. in occhiali e pigiama mentre  sullo sfondo la moglie tenta di sedurlo, e quello diabolico di Norman Bates,  che rivela  tutta la sua  malvagita', diretta in questo caso, verso lo spettatore inerme.



 



Il fumetto 
"...e i due uomini, occupati nella loro discussione, non si accorgono di una terza  figura che e' apparsa alle loro spalle : il Bat-man!".
Il piccolo americano di quel lontano 1939 probabilmente fece un salto sul suo divanetto stampato (o almeno ci piace pensarlo) all'apparizione dell'inquietante personaggio che la  didascalia con forti toni in grassetto fin dal primo momento cercava di ammantare di  mistero e terrore.
Il bimbo si abituo' presto alla sua piccola dose di brivido casareccio, di cui fini' per  non riuscire piu' a fare a meno,  cullato e guidato da brevi didascalie esplicative che lo  portavano per mano in una Gotham City cupa e tenebrosa, fidelizzandolo, passo dopo passo,  alle avventure del crociato mascherato.

Era sicuramente un orrore piu' confortante rispetto a quello che trasmettevano le immagini  e i resoconti di una guerra che, anche se ancora fisicamente lontana, si faceva comunque  strada nell'immaginario collettivo, con tutto il suo carico di minaccia.
Il gioco delle parti era comunque iniziato qualche anno prima : Mandrake e Phantom la facevano gia' da padrone sulle pagine dei quotidiani.
E anche se alcuni eroi a fumetti come Valiant  indulgevano ancora nel mostrarsi in grandi immagini preraffaellite corredate di brevi testi  come fossero illustrazioni di un libro, la stragrande maggioranza dialogava con il lettore  tra un balloon e l'altro a colpi di pacche sulle spalle, strizzatine d'occhio e sorrisetti  complici.
Immaginandolo in una situazione tridimensionale, il lettore di fumetti  si appoggia sulla quarta  parete
(la pagina stampata), e tramite piccole finestrelle (le vignette), osserva lo svolgimento della vicenda.
Le didascalie, come un narratore incorporeo,  sono li per spiegarla, ma anche per confermare che e' tutto finto: sono i mattoni della Quarta Parete.
Nel passaggio successivo verso la sua maturita', il protagonista delle storie a fumetti, comincia a conquistarsi una certa autonomia, e inizia a  rivolgersi direttamente al lettore.
Questo interessante espediente narrativo, inizialmente fu utilizzato solo in alcune copertine,  come quella famosa di Flash che incita a comprare il suo albo a fumetti per aiutarlo a  salvare il mondo dalla distruzione, ma successivamente divento' il punto distintivo per alcune serie.

Ogni volta ad esempio che She-Hulk dialoga con i suoi fans, e nella serie scritta da  John Byrne succede spesso, e' una forte spallata al muro della quarta parete.

Ma quello che per la gigantessa verde e' un mero giochino, per Deadpool diventa una  questione seria.

D'altronde il killer prezzolato piu' logorroico del fumetto, ha alle spalle una storia difficile e dolorosa.
Colpito da una aggressiva forma di cancro, si sottopone volontariamente ad una serie di pericolosi esperimenti  per tentare di guarire.
Aggiungi didascalia
Il suo ossessivo nichilismo lo porta ad offrirsi volontario ad ogni possibile martirio, e questo lo fa diventare l'idolo degli altri pazienti, che per sdrammatizzare, avevano organizzato  una vera e propria lotteria della morte (la dead-pool, da cui il suo futuro nick-name), per scommettere su chi fosse il prossimo a tirare le cuoia sul tavolo operatorio.  
Il nostro riesce ad uscire vivo dall'esperienza, con un fattore rigenerante che lo salva da ogni situazione,  un cancro non guarito ma perlomeno tenuto sotto controllo che gli ha devastato il viso, ed un atteggiamento nei confronti della vita cinico e  scanzonato.
Indossato un costume integrale per nascondere i propri orrori, diventa un killer a pagamento, e la rappresentazione vivente del proverbio ." Ne uccide piu' la lingua che la spada".
La sua esistenza fumettistica e' decisamente non convenzionale (ne sono una riprova i suoi ballons colorati, diversi da tutti gli altri), sempre in bilico tra la grottesca  caricatura di un eroe  (di cui lui rifiuta la definizione), ed il realismo sofferente di  chi deve convivere con dolori  fisici e psichici.
Egli e' l'unico supereroe a fumetti in grado di  riconoscersi come tale, che ha piena coscienza di se e del mondo che lo osserva, e riesce  percio', quando vuole, ad infrangere  la quarta parete, come fosse dotato di uno speciale superpotere.
Ne sono una riprova, i fitti dialoghi che, durante le sue avventure, intrattiene con i lettori, trattando con loro alla pari (guardare il suo film per credere).
Ha percio' entrambi i piedi saldamente piantati in entrambi i Mondi.
In realta' non e' proprio l'unico.
Killgrave, l'Uomo Porpora, l'odioso villain che riesce a possedere le menti altrui, e che, dopo aver martirizzato Devil a piu' riprese,  e' diventato il simbolo del piu' bieco maschilismo, riducendo Jessica Jones (nella serie "Alias") a mero giocattolo sessuale per il proprio sollazzo, e' ben conscio del suo status di personaggio a fumetti, e la sua situazione lo diverte parecchio.

Ma torniamo a Deadpool.
In una saga in tre parti scritta da Cullen Bunn, detta "Trilogia omicida", un Deadpool gia' pienamente consapevole, decide di compiere il gesto estremo.


Primo passo (Deadpool uccide l'Universo Marvel)
Non riuscendo piu' a sopportare le sofferenze dei personaggi Marvel intrappolati in un interminabile ciclo di morte e resurrezione dalla maledetta Continuity con il solo scopo di appagare autori e lettori, pianifica la soluzione finale con una sanguinaria e spettacolare eutanasia collettiva.
Questo pietoso sterminio diventa pura vendetta, quando si trova davanti scrittori e disegnatori delle sue storie,

Secondo passo (Deadpool uccide i Classici)
Avendo capito che l'origine del problema e' altrove, si avventura nel cosiddetto  Ideaverso, dove dimorano i protagonisti di ogni romanzo o racconto d'avventura mai concepito, per  eliminare direttamente gli  archetipi dei personaggi a fumetti (ad esempio i Quattro  Moschettieri come prototipo di ogni supergruppo; Moby Dick, come Madre di tutte le nemesi, etc..),  cercando di estirpare alla fonte la mala pianta dell'artifizio letterario.

Terzo passo (Deadpool uccide Deadpool)
Non ancora soddisfatto, nell'ultima tappa del suo folle viaggio, identifica se stesso e  tutti i suoi doppioni del Multiverso, vere e proprie anomalie in un mondo codificato, come la chiave determinante per ottenere la agognata liberta',  e decide di procedere ad un'ultima strage: quella verso se stesso.

Ovviamente, finale a parte,  l'unica ad uscire realmente vincitrice da tutta questa (divertente) mattanza di  eroi e convenzioni, confermando cosi' la propria immortalita', e' proprio la Continuity  stessa, il cui unico malcelato scopo e' sempre stato unicamente quello di attirare lettori, o semplici curiosi, nel suo enorme, eterno anello di Moebius.

D'altronde era prevedibile : la rottura della quarta parete funziona solo quando e'  episodica.
Nel momento in cui diventa parte integrante della trama, come in Deadpool, perde qualunque valenza  rivoluzionaria ed impattattante, e diventa mera routine, o semplice esercizio stilistico.
Nel campo cinematografico ne sono esempi lampanti opere come "La rosa purpurea del cairo" o  "Last action hero", dove il passaggio dei protagonisti da un mondo cinematografico  all'altro, e' un semplice, seppur riuscito, saggio sull'argomento.

A pensarci bene questo giochino soddisfa pienamente il nostro bimbetto interiore, che vorrebbe fosse tutto reale,  tutto a portata di mano, soprattutto la situazione piu' fantastica.
Parafrasando Nietzche : "..quando guardi a lungo nell'IMMAGINAZIONE, e' l'IMMAGINAZIONE a guardare te!".
Oppure, come suggerirebbe Alice : "Lasciamoci tranquillamente sedurre dal Mondo al di la' dello specchio, e lui  ricambiera' volentieri".

2 commenti:

  1. Rivedendo la pagina di she-hulk che hai inserito mi è venuto in mente che a volte questo rompere le regole può essere un sintomo di mancanza di idee o di pigrizia gestiti con furbizia. Nella figura la donna verde cita un numero di Alpha Flight in cui Byrne ha inserito una certa quota di pagine (tipo 5 su 20) prive di qualsiasi disegno, completamente bianche, solo con i baloon dei dialoghi ed i riquadri. Il pretesto: una tempesta di neve. Byrne prende in giro se stesso per questa "genialata" e ripete il trucco facendo ancora meno, neanche i riquadri... fino a che She Hulk non straccia letteralmente il foglio bianco: "Byrne? Vuoi fare chiudere la mia serie?"
    Divertente ma alla lunga si rischia l'esagerazione.

    Vorrei citare anche "Moonlighting" la serie dell'85 che ci fatto conoscere Bruce Willis. All'inizio era spassosa, ma alla quarta serie di questi trucchetti non se ne poteva più.
    Forse per questo resto alla larga da Deadpool.

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  2. Infatti come dicevo, se l'operazione e' episodica ha un suo valore, un po' come il bidet di Duchamp, alla lunga puzza di commercio. Purtroppo Deadpool ne e' un esempio, anche se la trilogia citata ha un suo perche'. Se l'avesse scritta Morrison grideremmo al capolavoro.
    Byrne e' stato un ottimo scrittore di fumetti popolari, di veloce lettura e senza velleita' intellettualoidi (un po' come Geof Jones). E' stato anche il primo a non prendersi troppo sul serio. sono convinto che la sua She Hulk era per lui puro divertissement, infatti e' durata poco.

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