Dice: parla di te, dei tuoi sogni, nella Forlì
degli anni Novanta. Di quello che volevi diventare e di come ti sei perso, se
ti sei perso. Di come la città ti ha sviato, ti ha bloccato e ti ha tradito. Ma
Forlì non mi ha tradito. Quello che volevo diventare, più o meno, sono
diventato. Certo, all'inizio volevo essere Beccalossi, Paul McCartney e T.S.
Eliot – ma poi ho pensato che era meglio un posto fisso da intellettuale di
stato.
Quello
che mi sono perso, negli anni Novanta come negli anni Ottanta, è Forlì.
Scrivo
questa cosa in un appartamento in periferia. Il PC è appoggiato su un tavolo
nuovo in una cucina nuova – nuova per me – con vista sui tetti e sulle colline
intorno a Predappio. Quando lavoro in casa guardo questo spicchio di colline in
lontananza – ne imparo i contorni, ne interpreto le macchie di colore. Sono un
po' mie: il pezzo che si vede bene, sotto al cornicione di un tetto, e quello
seminascosto dietro a tre alberi e a un paio di parabole. Conosco queste colline
meglio di quanto conoscessi qualunque pezzo della mia città negli anni Novanta.
Le conosco perché le guardo. Forlì, negli anni Novanta, non la guardavo mai.
Ho
passato gli anni Ottanta e gli anni Novanta a spostarmi – in bicicletta, in
macchina, a piedi – e a immaginare cose. Immaginavo quello che sarei diventato,
o fantasticavo su quello che ormai non sarei più potuto diventare. Immaginavo
storie con ragazze che sapevo di non poter avere. Immaginavo di diventare un
calciatore, per qualche via fortunosa, senza neanche impegnarmici troppo.
Immaginavo di essere un musicista famoso. Uno scrittore. Un professore
universitario, un intellettuale letto e ascoltato. Immaginavo, e non alzavo mai
lo sguardo. Piazza Saffi era un luogo di ritrovo con gli amici, corso Garibaldi
e via delle Torri erano territori di caccia. Le chiese romaniche, i palazzi
nobiliari, le vie romane, le spianate dove prima c'era un teatro – tutto questo
non esisteva. Le terre desolate intorno a via Ravegnana o viale Risorgimento,
per me, per noi, valevano quanto i vicoli di Schiavonia e Piazza Duomo, già
Piazza Santa Croce – e forse di più, perché quando devi diventare qualcosa sono
meglio le strade senza nome, rispetto alle piazze che di nomi ne hanno cambiati
due o tre.
Non
guardare le cose, penso ora, è una forma di tradimento. Ma io Forlì, negli anni
Novanta, l'ho tradita davvero, più volte e non solo col pensiero. L'ho snobbata
e me la sono lasciata alle spalle – o almeno così credevo. Me ne andavo
altrove, a conoscere altra gente, e intanto le colline erano qui che mi
aspettavano.
*
1994. Ho ventun anni, quindi sono adulto.
Abito con i miei, ma studio a Bologna – e quando sono a Bologna cerco di
assumere l'aria di chi conosce la città, e non ha bisogno di guardare i nomi
delle vie per orientarsi. Adesso è luglio, ci sono i mondiali, e l'unico vero
motivo per stare a Bologna sono gli esami – ma io ci vado lo stesso, quasi
tutti i giorni, perché tutti i miei amici sono lì, la vita vera passa per la
stazione, via Indipendenza, via Santo Stefano e via Cartolerie. Nella pausa
pranzo della vita vera si va al solito bar vicino al dipartimento, per parlare
di cinema e citare T.S. Eliot. E chissenefrega dei mondiali, roba piccolo
borghese, anche se nel corso del girone di qualificazione passo dal tifare
contro l'Italia senza guardarla a chiedere come è andata la seconda partita al
seguire Italia-Messico e Irlanda-Norvegia in contemporanea, col fiato corto per
la tensione.
Oggi,
è vero, sono a Forlì – ma è un caso, è solo perché i miei sono in vacanza da
qualche parte col mio fratello minore, e mi hanno lasciato la casa libera. Una
casa libera, per quanto a Forlì, non si butta via. Mia mamma, prima di partire,
ha chiuso il gas perché teme che io le faccia esplodere casa. Io, partita mia
mamma, ho rigirato il rubinetto del gas e mi sono messo a invitare gente a
pranzo, a cena. Distribuisco pasta al pomodoro previo abbondante soffritto,
mettendo insieme i vecchi amici di Forlì – Roberto, Giovanni, Antonio – con i
nuovi amici dell'Università – il Perfido, che sta a Forlì ma studia a Bologna,
e cita T.S. Eliot come me. E poi le ragazze, che ora mi piace chiamare amiche
perché ho la morosa, che studia a Bologna e non è una palla al piede come
quella di prima.
A
dire il vero, lei è di sopra che dorme. Abbiamo dormito insieme, perché siamo
adulti, nel mio letto di quando ero bambino, nel quale in effetti dormo quasi
sempre, a meno che non rimanga da lei o da altri a Bologna. Avevo anche pensato
di dormire nel letto matrimoniale dei miei, ma poi ho paura che se ne
accorgano, e non so usare la lavatrice per far sparire le tracce. Quindi alla
fine mi sono addormentato tardi – il perché è facile da immaginare, siamo pur
sempre adulti – e mi son svegliato presto, perché in un letto singolo in due ci
si sta scomodi, e io faccio già fatica a prendere sonno in condizioni normali.
Fra l'altro stanotte ospito anche il mio amico Filippo, che è di Bologna –
oddio, di Sant'Agata Bolognese, ma son pochi chilometri – e al bar vicino al
dipartimento cita Victor Hugo. L'ho messo a dormire nel letto di mio fratello –
e quindi non potevo neanche buttarmi nella stanzetta di fianco, alle sette e
mezzo, quando mi sono svegliato con una storta al collo. Ma fa niente, è
luglio, in cucina c'è un sole che sembra abbia ventun anni come me, e sono il
padrone di casa.
Le
nove meno dieci. Aspetto ancora un po' a svegliarli, e intanto apparecchio la
tavola per la colazione. Siccome sono un uomo, e sono anche brillante, sono
andato a prendere la colazione al forno qui vicino – paste, un po' di piadina –
con i soldi che mi ha lasciato mia mamma per questi giorni che passo in casa da
solo. Certo, potevo aspettare che si svegliassero e portarli in centro, ma io
in centro non so dove si va a fare colazione. In viale Risorgimento, invece, fra
le case in finti mattoni e in mezzo al traffico, c'è un forno-latteria dove
fanno anche il caffè. Metto a tavola tre piatti, tovaglioli di carta,
bicchieri, e al centro, come fossero alzatine di frutta, la busta che contiene
le paste e quella della piadina – che ha già stampato sulla carta grosse
macchie oblunghe di unto.
Mi
siedo dirimpetto alla portafinestra della cucina, immergendomi nel sole, senza
vedere le colline intorno a Predappio che svettano sulle casette là in fondo.
Certo, non è come Strada Maggiore a Bologna, dove abita la mia ragazza, ma si
sta bene, anzi, oggi si sta meglio. In Strada Maggiore, a luglio, c'è un'afa
che di notte non si respira. La prima volta che ho dormito lì non ho chiuso
occhio – la mattina dopo ero groggy, lei mi ha fatto un risotto e si è un po'
offesa perché non le ho detto neanche grazie, o che era buono. Aveva ragione,
anche se a pensarci bene era una cosa che avrebbe potuto fare anche la mia
morosa di prima, che invece era di Imola e anche se faceva Lingue capiva poco
di poco, e si offendeva facile.
Ma
no, c'è una differenza enorme. Basta pensare alla sera che ci siamo messi
insieme, il 18 giugno, che c'era Italia-Irlanda ma io naturalmente le ho detto
figurati, chissenefrega della partita, andiamo al cinema a vedere questo film
d'essai olandese, è un po' che lo seguo, questo regista olandese, o belga,
adesso non ricordo, d'essai. E allora siamo andati al cinema, e il film forse
non era proprio adatto per mettersi insieme a una, c'era questo che viveva con
la mamma e faceva tutto con la mamma, ma proprio tutto, e la mamma era una
grassona un po' laida, e lui aveva qualcosa di infantile ma anche di anziano,
ma insomma, andava bene lo stesso. Io le ho messo la mano sulla gamba e lei
aveva queste gambe lisce ma anche un po' ruvide, che ho capito poi, molto più
avanti, che era perché se le radeva, ma non tutti i giorni. In quel momento
quelle gambe lì, un po' lisce e un po' ruvide, mezze scoperte perché aveva
questo vestito nero corto, mi son sembrate l'apoteosi dell'essere adulti e
avere il mondo a tua disposizione.
E
poi anche prima, il bello di questa cosa è che non l'ho neanche cercata, è
venuta lei a conoscermi nella biblioteca di Lingue, e a un certo punto, già il
giorno dopo, mi ha scritto un bigliettino dove mi chiedeva il telefono. 0543
eccetera, ho scritto subito io – un po' dispiaciuto per il prefisso di Forlì,
ma insomma, ero comunque in vantaggio. E poi ha proposto lei il film, e mi ha
detto lei che se volevo fermarmi a dormire perché non c'erano treni, nel suo appartamento
di Strada Maggiore c'era posto. Io, in camera sua, prima del film, non sono
stato proprio disinvolto, e anche la notte, dopo il film, lei mi ha preso un
po' di sorpresa – la mia morosa di prima non si muoveva mai, guidavo sempre io
– ma dopo mi son ripreso alla grande, perché sono uno che impara in fretta, e
adesso non mi ferma più nessuno. Ho capito il trucco, ho capito come mi devo
muovere e ho perfezionato il personaggio: a Forlì, fino a un paio d'anni fa,
ero il Moro, intelligente ma un po' sfigato. A Bologna sono il Moro, uno che
piace alle ragazze e cita T.S. Eliot. Con questa qui, per dire, mi tengo
abbottonato – così do l'impressione di avere avuto una vita molto più
complicata, e persino dolorosa, di quella di uno che si alza al mattino, mangia
un parallelepipedo di piadina e va in bici al liceo, poi torna in bici dal
liceo, mangia un piatto di pasta e si mette a fare i compiti. Se non hai
profondità insondate, basta stringere un po' gli occhi e guardare l'orizzonte.
Ma
durerà poco. Mentre salgo le scale in finto marmo per andare a svegliare i miei
ospiti, non so ancora che nel giro di un paio di mesi mi rivelerò come un
ragazzo di Forlì a cui la mamma lascia i soldi per comprare la piadina, e che
quindi la mia ragazza mi lascerà. E che rimasto solo, senza nessuno che mi
ospiti a Bologna, mi toccherà passare il resto di settembre nella tavernetta
dei miei, a studiare tedesco con la luce al neon installata dal mio zio
elettricista intorno al 1983, quando il neon sembrava fosse una gran cosa. E a
escogitare metodi inefficaci, e poi sempre più blandi e contorti, per ritrovare
la strada perduta verso le mie notti da bolognese, l'estate dei mondiali
americani, in Strada Maggiore.
*
1999. Sono in Corso della Repubblica, a Forlì
– ma è un caso, perché io in pratica sono sempre a Bologna, quando non
addirittura a Firenze o a Milano. A Bologna do una mano in dipartimento, seguo
tesi, tengo seminari. A Firenze faccio un Dottorato in Anglistica e
Americanistica, con le iniziali maiuscole. A Milano vado per le mie
collaborazioni editoriali – beh, per ora una singola collaborazione editoriale,
poi vediamo.
Me
lo ricordo ancora, il giorno in cui Crocetti mi ha chiamato – Crocetti Editore,
quello di Poesia, la rivista letteraria più venduta in Italia. Io negli
anni dopo la laurea mi ero messo a comprare libri di poesia inglese moderna e
contemporanea, il che faceva di me un esperto in materia. Avevo anche
trascinato la mia ragazza – non quella di Strada Maggiore, una che si era presa
i resti – per varie zone semidesertiche del Regno Unito, in cerca di festival
del libro e di librerie di seconda mano. Mi ero esaltato al completamento della
mia collezione di raccolte poetiche di Peter Reading, un autore che in effetti
non ci sarebbe alcun motivo di leggere. E poi, a inizio 1999, col mio Dottorato
in tasca e con le mie raccolte di Poeti del Secondo Novecento (sto
pensando a una monografia) in tavernetta – nella tavernetta di casa dei miei,
dove ancora abito, anche se poi in realtà sono sempre in giro – ho scritto a
Nicola Crocetti per dirgli che potevo scrivere questo, tradurre quello,
introdurre quell'altro ancora. E lui, con mio grande stupore, mi ha richiamato.
Risalgo
Corso della Repubblica verso Piazza Saffi, a piedi, e il vento dell'autunno
forlivese mi dà quasi gusto, perché sento di non appartenere davvero a questi
luoghi. Devo andare in tabaccheria a comprare buste, a farmele pesare e
affrancare con dentro i miei fogli stampati e i miei floppy disk – ma è come se
anch'io, come fra poco le buste, fossi già in viaggio per Milano.
Ci
sono stato, da Crocetti – in via Falck, fermata Molino Dorino – una bella
giornata di settembre. In metro, mezza vuota perché erano le dieci passate,
c'erano due ragazze alte alte che dovevano essere modelle, di sicuro. Crocetti
sta in questo palazzone modernista alla periferia di Milano, e mi ha accolto
con i suoi scaffali pieni di libri e di numeri della rivista, e con la maglia
un po' qualunque di chi si interessa alle cose serie, mica a come va in giro
vestito. È greco, Crocetti, e ha vissuto un sacco di vite diverse – un po' me
le ha raccontate a pranzo in questo bar, un posto mezzo scalcagnato perché
quelli come noi mica badano a dove mangiano. E dopo pranzo, dopo che abbiamo
parlato di quello che farò per Poesia, mi ha accompagnato in centro con
la sua macchina giustamente vecchia e malridotta. E prima di lasciarmi vicino
alla stazione si è fermato un attimo al Giornale – perché lavora al
giornale, Crocetti, e quello che a Forlì compri in edicola a Milano lo trovi
sotto forma di palazzo. Il Giornale. Il Corriere della Sera. Mondadori.
Lo
vedi, mi dico guardandomi intorno quando esco dalla tabaccheria, è questa la
differenza. A Milano c'è il Corriere della Sera. A Bologna c'è Repubblica. A
Forlì c'è il Resto del Carlino, edizione locale. Mi ricordo di quando ci ho
scritto un paio di trafiletti, un paio di anni fa: l'Anffas, una realtà
radicata nel territorio; quale futuro per la pallamano forlivese? Avevo chiesto
a mio cugino di non farmi fare lo sport – chissà poi perché, in effetti – e
quello zac, mi affibbia un'intervista sulla pallamano.
La
differenza, mi dico attraversando Piazza Saffi senza guardarla, senza sapere
che un tempo si chiamava Campo dell'Abate, e che era la periferia e non il
centro, e che ci sono sepolti sotto non so mai quanti francesi, è che a Milano
le cose si fanno, qui se ne parla e basta. In un giorno, a Milano, ho deciso
cosa avrei fatto per i dodici mesi successivi – mentre tutte le sere, quando
vado a casa di Roberto nel villaggio Fanfani di Viale Spazzoli, parliamo e non
facciamo mai niente. E il sabato sera usciamo, andiamo in qualche pub e
parliamo, parliamo, parliamo. Forse dovrei mettere su una rivista, mi dico, con
la sede qui in centro.
E
poi di nuovo, imboccando Corso della Repubblica, che una volta era Borgo
Cotogni, e mia nonna ogni tanto lo chiama ancora così ma io non la sto a
sentire, ripenso alla telefonata con Crocetti. Lui mi aveva chiamato, ma io non
c'ero e aveva risposto mia mamma. E il giorno dopo l'avevo passato tutto a marcare
stretto il telefono, come aspettassi una chiamata da una ragazza – ma niente,
neanche uno squillo. E allora l'ho richiamato io, la mattina dopo ancora, dal
telefono della sala, con i miei al lavoro e mio fratello che dormiva in camera
sua. E mi ricordo che abbiamo fissato un appuntamento a Milano, e che c'era il
sole in quella casa alla periferia di Forlì. Mi ricordo che c'era il sole e
nient'altro – perché io, a Forlì, penso sempre ad altro, e non alzo mai la
testa.
Bellissimo! E, a parte l'ultima parte in cui c'entro poco, le altre me le ricordo benissimo. Mentre tu cercavi il tuo futuro altrove e chinavi gli occhi, evitando la tua realtà geografica, io cercavo un altro me stesso che non é mai arrivato e, ad un certo punto, mi sono pure dovuto accontentare :-)
RispondiEliminaHai fatto tante altre cose ma, per me, i paletti che individuano i periodi della nostra esperienza comune sono alcune serate passate assieme nella rondomobile; tali serate erano una sorta di attestazione delle soluzioni di continuità della tua vita affettiva. E io mi sono sentito come un muto notaio, ma pure ti studiavo: eri più giovane ma più avanti di me, forse la tua esperienza sarebbe stata, un giorno, la mia (te pensa che coglione ero...). Se posso giocare un pochetto, visto che sono persone citate nel racconto, individuo un periodo paleoaffettivo corrispondente a quella ragazza che con te c'entrava poco ma é stata, immagino, un allenamento al rapporto amoroso e la serata in cui tu, dolorosamente, mi raccontavi della tua decisione: l'avevi lasciata. Io mi ero impegnato molto per farla sentire a suo agio. Poi é arrivata la Rossa; mi metteva in soggezione parecchio, quella, cazzo se mi pareva impegnativa! Una sorta di uragano che arriva con violenza e con violenza se ne va e lascia un po' di devastazione. Ricordo che la seconda soluzione di continuità fu molto più dolorosa della prima, anch'essa attestata da una conclusione di serata nella rondomobile. Poi la lunga relazione con la ragazza che ti leccó le ferite, l'unica che ho potuto chiamare amica. Infine l'arrivo alla vera meta, la famiglia.
Caro, scusami, leggo il commento solo ora - non ricordo quelle serate in particolare, ma son sicuro che ci sono state e mi sono servite. Grazie per la lettura!
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