giovedì 25 marzo 2021

 STORIE DA UN ALTRO UNIVERSO

TERZA STORA

99


Quel maledetto numero mi risuona in testa: "99, 99, 99!"

L'incontro con il capo e i colleghi d'area è stato ieri. Mi ha lasciato il solito mal di stomaco e un'immancabile senso di frustrazione.

Il primo per il fatto che quando mangio in riunione proprio non digerisco, il secondo per quel numero: il 99. Sì, al maledetto manca un niente per essere 100, ma 100 ancora non è.


Torniamo indietro di un giorno.

E' mattina preso: esco da casa e salgo in macchina per andare al lavoro come al solito. Solo che oggi il mio lavoro non è, come d’abitudine, la rincorsa ai medici sparsi per il territorio: oggi c'è la riunione di ciclo.

Il ciclo che intendo non è quello mensile delle donne: il nostro cade ogni trimestre circa e individua un lasso temporale nel quale raggiungere obiettivi più o meno prefissati. Su di me però l’effetto è il medesimo: quando hanno il ciclo le donne sono nervose e irascibili, quando ho la riunione di ciclo sono io, quello nervoso e irascibile.

In realtà sarebbe anche un buon momento, che interrompe il via vai di un lavoro sempre uguale a se stesso; incontrare i colleghi è sempre piacevole, ma è tutto il resto che proprio non sopporto. Non so se l'ho mai sopportato, ma con l'andare del tempo è diventata una vera tortura.

Arrivo tra i primi, parcheggio lontano l'auto in leasing aziendale che utilizzo per lavoro, perché mi vergogno, tanto è sporca di fango. Non la porto praticamente mai all'autolavaggio attendendo provvidenziali piogge. Solo che non siamo in India; i monsoni si fanno attendere e i temporali nazionali non bastano. Alla fine dell'estate la mia auto è impresentabile.

Mi vergogno anche del mio disordine: i farmaci nel portabagagli non sono tenuti come si dovrebbe, anche per il fatto che carico l'auto una volta alla settimana per non doverlo fare ogni mattina presto od ogni sera al ritorno dal lavoro. Così accade che il lunedì la disposizione di colli e sportine piene di farmaci risulta razionale e geometrica, mentre il venerdì il caos ha ripreso il sopravvento.

Afferro la borsa in finta pelle da finto medico, e mi dirigo verso l'albergo alla periferia di Bologna in cui si svolgerà l’incontro.

All'entrata saluto colleghi e amici. Quasi tutti amici, a qualcuno sono anche sinceramente affezionato, nessuno mi sta di traverso e in tanti anni di lavoro ho avuto solo una franca antipatia... diciamo due... facciamo tre.

C'è anche il capo che, fino a non molto tempo fa, era uno di noi. Mi accoglie con un enfasi che dovrebbe darmi la carica necessaria a sopravvivere alla giornata; lo saluto con la stessa enfasi, che però risulta fin troppo falsa: nella mia testa, alla vista dell'uomo che gli sta accanto, è esploso un: "Porca puttana!", intenso e partecipato come se lo avessi urlato a pieni polmoni.

C'è anche il direttore vendite! Ancora!? Non sta mancando una riunione, come considerasse il capo non abbastanza adeguato al ruolo, non abbastanza capace di motivarci, non abbastanza in grado di trasmettere le volontà dell’azienda, insomma non abbastanza...

Capisco all'inizio, ma è la terza volta di fila che viene!

Il nuovo capo l'hanno scelto loro: aveva risultati ottimi sul campo, ma, come si dice, un buon manovale non è detto sia un buon capomastro. Fatti loro, dovevano pensarci prima. E invece no, sono anche fatti nostri. Anzi, problemi nostri.

Io mi sono affezionato a tutti i capi che ho avuto: il primo non serviva a nulla, ma non rompeva le scatole, il secondo stava con me giorni interi, era di aiuto con il medico e molto motivante, ma altrettanto stancante; il terzo, questo, vorrei dire che unisce il meglio dei primi due, ma non posso, proprio non posso. In realtà è un impiccio quando entra dal medico e la sua capacità motivante è mediocre. Però è una brava persona, mentre il direttore vendite è un falso amichevole, uno di cui non ci si può fidare, per ruolo e potere di nuocere.

È affabile, da del tu a tutti, ride, ma io temo che il suo atteggiamento non sia del tutto sincero. Lui è la mano e gli occhi dell’azienda che, evidentemente, sta diventando sempre più disfunzionale. Sento con chiarezza che i tempi migliori sono alle spalle e non credo di essere il solo a fare questa triste considerazione, sono certo che lo percepiscono anche i miei colleghi.


Si parte. Io cerco di parlare poco, ma di fornire comunque una minima e cauta partecipazione. Se parli poco sicuramente dici meno cazzate, ma se non parli mai, pare che non te ne freghi niente, e non va bene nemmeno così.

Ogni tanto si ride pure ma non come una volta. La presenza del direttore vendite un po’ pesa. Siamo tutti più guardinghi.

Poi ci sono i nuovi colleghi: negli ultimi tempi l'area è cambiata in estensione e territori, come un'ameba gigantesca che non trova pace. Abbiamo perso il riminese, poco male, e guadagnato il rovigotto: direi che il saldo è positivo.

È successo anche, tempo prima, che un'anziana collega emiliana e logorroica sia andata in pensione, sostituita da una giovane; qui sul saldo sono meno certo. Aspetto prima di dare il giudizio definitivo.

In ogni caso i colleghi rimasti sono il segno di una continuità che mi da qualche speranza e rende più piacevole un tempo che, altrimenti, sarebbe totalmente insopportabile.


Ok, si parte con la scaletta: prima c'è una sorta di entrèe, più o meno lunga, in cui il capo area cerca di ricordarci gli obiettivi aziendali, di farci presente l’importanza del nostro impegno, di instillarci un certo senso del gruppo: tutte cose pressoché inutili, che dimentico dopo10 minuti. Poi si espongono eventuali novità, ultimamente tutte risibili, e si programma una sorta di strategia trimestrale che ognuno di noi declinerà nella sua personale tattica, giorno per giorno. Questo è il momento in cui di solito si interviene di più.

È anche gradevole confrontarsi, anche se si vive in una sorta di limbo, e non puoi dire tutto quello che pensi. A me, per esempio, oggi verrebbe da dire che stiamo proponendo ai medici una cag...ta dopo l'altra, mentre una volta lanciavamo farmaci di una certa rilevanza. Guardo il volto assertivo del direttore vendite, e capisco che proprio non è il momento. Al contrario, quando intervengo, cerco di essere costruttivo. Mi pare anche giusto.

Uno dei migliori del gruppo è invece spesso polemico in modo per me incomprensibile; se fossi bravo come lui passerei la riunione con un sorriso serafico stampato sulla faccia. Invece Alessandro proprio non ce la fa a non polemizzare, tanto che si spazientisce anche il direttore vendite.

Dopo il benvenuto dello chef si passa al pezzo forte del menù, il momento per me peggiore: l’esposizione pubblica dei dati di vendita. Il capo area, su cenno di assenso del direttore vendite, cerca il file sul portatile e avvia la proiezione.

Attimi di puro terrore. Il cuore batte a mille; ci guardiamo in silenzio, come a cercare conforto ognuno negli occhi dell'altro.

Come sempre il capo spiega che dall'azienda, e il direttore annuisce (in pratica non fa altro da almeno mezz'ora, tanto che, penso, faceva prima a mandare in riunione un suo cartonato con la testa montata su una molla), è considerato importante non lasciare questo momento come personale ma renderlo collettivo. Immagino sia nell'ottica di pungolare la ricerca di risultati tramite il confronto/scontro tra colleghi, ora che i premi in denaro sono sempre di meno. Quando non c'è la carota, va bene anche il bastone.

C'è il prodotto X, quello Y, il Z è così via. Di ognuno ci dice quanto ne vendi tramite un numero.

Per definizione la media spalmata sul suolo italiano è cento: se hai più di cento nella tua zona sei sopra la media e quindi sei bravo, se hai meno di cento sei sotto la media e quindi sei scarso.

Questa cosa si ripete per ogni singolo farmaco o meglio per ogni singolo prodotto: ormai l’azienda sta scivolando sulla china degli integratori senza saperli valorizzare e, a me pare, senza neppure saperli scegliere. Una scelta infausta, ma in tempi di crisi si mette mano alle scorte invernali.

L’ostensione dei dati è sempre stato per me un momento davvero terribile. É come una cristallizzazione insindacabile del mio valore come lavoratore e, siccome il lavoro è gran parte della mia vita, qualcosa che definisce quanto valgo come persona: gongolo quando vedo un numero sopra cento e mi sento incapace quando esce qualcosa con due sole cifre.

Eccolo, il problema del 99: non ancora 100, ma di poco, troppo poco.

Forse meglio avere 50 ed essere sicuri della propria morte.

Certo, i prodotti da vendere sono più di uno, qualcuno è sopra la fatidica cifra, qualcuno sotto; ma, poiché la media delle medie non si fa, ti vien da pensare che ogni numero sotto 100 rappresenti una macchia indelebile. E' difficile non averne nemmeno uno. Io ci metto del mio: il numero più basso, se non arriva a 100, diventa una sorta di ancora esistenziale. Se non te ne liberi, rischi di annegare.

Questo meccanismo di perenne confronto dovrebbe spronarci a spingere il prodotto o i prodotti scarsi, con particolare veemenza. Senza dimenticare gli altri però, che altrimenti potrebbero finire loro sotto 100. Insomma, si rischia che la coperta degli sforzi risulti sempre troppo corta.

Detto tra noi: non sono sicuro che tutto dipenda dal nostro impegno, viene da pensare vi siano anche variabili esterne, magari storiche, legate a momenti determinanti in un dato territorio, oppure relative alla presenza di un opinion leader medico favorevole, o ancora perché la o le aziende competitor hanno assunto un fancazzista (questo non succede spesso, ma se capita è una vera manna dal cielo!).

Ma ogni appello alla complessità suonerebbe come una scusa: ricordo sempre con ribrezzo che la massima più vomitevole nel più becero lessico aziendale è: "Non esistono problemi, solo opportunità!". Ma vaff...


Okkey, torniamo ai dati. Per farmi capire: c'è quello mensile, poco significativo ma se è buono è meglio, perché è impossibile che al direttore vendite sfugga un dato negativo; il trimestrale, più importante perché corrisponde al periodo che individua il ciclo di lavoro; infine la famigerata media mobile annuale. Io ci ho messo un po’ a capire cosa fosse: è in pratica una media che ti insegue mentre ti muovi nello spazio tempo. In pratica un enorme buco nero da cui non si può sfuggire. Se siamo a gennaio dell'anno lei parte dallo stesso mese dell'anno precedente; quando si passa a febbraio, anche la coda della media avanza con te. Che bello. Una media che non ti lascia mai, come un cane, fedele ma fastidioso, che non riesci a distanziare. Nemmeno abbandonandola in autostrada.

Infine c'è il dato evoluzione, il più pericoloso: fotografa il trend, come la tua zona si sta muovendo. Se va male, deve crescere, se va bene, deve crescere di più. Insomma, c'è sempre qualcosa che non va. Sospetto che l'azienda lo faccia apposta per tenerci tutti e sempre a guinzaglio corto e collare stretto. Basta un filo d'aria per convincere il medico.

Mentre il capo scartabella tra le pile di fogli che si è portato dietro e il direttole continua ad assentire (temo a questo punto che si sia addormentato con gli occhi aperti), mi guardo intorno, il cuore veloce come un super espresso giapponese, mi guardo intorno per vedere cosa stanno facendo i colleghi.

Quello di Modena, il grafomane compulsivo, scarabocchia su un foglio strane cose dadaiste che immagino rappresentino la tempesta emotiva che si sta scatenando nella sua mente; la collega di Ravenna, fanatica della meditazione trascendentale, rimane ad occhi chiusi ma spalancati sul suo mondo interiore; i colleghi di Bologna si danno di gomito, sicuri della loro debacle e accettandola filosoficamente con un sorriso (probabilmente soffrono anche loro ma, per pudore, non lo danno a vedere); la collega di Parma, famosa lecchina, finge di ripassare il nuovo depliant (esattamente uguale a quello di prima) in vista della futura, inevitabile, temutissima, prova intervista.

Va bene, ora partono i numeri:

“Primo prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 130... ultimo mese: 117!” E vai!!

Ok, sono pochi pezzi, il lancio è recente, comunque sempre meglio partire bene. Il mio cuore decelera per un attimo.

Poi il capo precisa: “L'evoluzione, Rondoni, l'evoluzione...”, e vengo sommerso da una salva di extrasistoli.

Il direttore improvvisamente si sveglia e declama le sue considerazioni: “Se non ci sono dati tragici in una zona restano avvertenze generali; in caso contrario si opera un necessario approfondimento. Per carità, fatto gentilmente!” Ho capito poco, ma il linguaggio aziendale è spesso volutamente generico, banale e criptico; salvo poi non perdere l'occasione di redarguirci, se non abbiamo fatto tutto a dovere, con un: “Te l'avevo detto!”

“Secondo prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 107 … ultimo mese: 110!“

Questo è un prodotto più maturo e io sono riuscito a stabilizzarmi sopra 100 da un bel po’, ma non si sa mai. Bene così. Una carezza al mio povero ego sfibrato.

“Terzo prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 67... ultimo mese: 81!” Vabbè questo è un vecchissimo brand che non è neppure nostro, abbiamo accordi di commercializzazione da 15 anni con un'altra azienda che lo produce. Nessuno di noi ci mette impegno, anche se é una cosa che non si può dire apertamente. Anche se non vale, si buoni dati dei colleghi un po’ mi infastidiscono.

“Quarto prodotto... zona Romagna... (questo è importante, è una gloria dell’azienda)... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 100... ultimo mese: 101!” Sono da sempre sul confine tra bravo e scarso, con questo prodotto.

Il fatto è che i pezzi venduti sono tanti e cambiare qualcosa è veramente difficile, non basta che un medico amico prescriva un pezzo in più.

Il rischio è di impegnarsi allo spasimo per non ottenere nulla. Su questo farmaco talora ho l’impressione di correre a perdifiato su un tapis roulant solo per rimanere fermo sul posto.

“Quinto prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena/Rondoni... (aspetta Roberto, fermiamoci un attimo. A parte il farmaco inutile in conto terzi non sei mai stato così bravo! Forse è la volta buona che)... media del trimestre: 99.... (no!)... media del mese: 99!” (noooooooooo...). Eccolo, il 99, il maledetto, l'inutile, il dannoso. Né carne né pesce; né zuppa, né pan bagnato; né bianco, né nero. Né alloro in capo, né schiaffi sui denti. Sembra stupido, mica ti uccidono per questo. Invece no: quando il capo, a fine riunione, mi dice: “La prossima settimana vengo in affiancamento che ne parliamo!”, capisco che, magari non rischio il licenziamento, ma la smolecolarizzazione testicolare sì. E a quelli, io ci tengo! Bisogna prendere provvedimenti!

Come ogni volta, per fortuna, all'una e mezza c'è la salvifica pausa pranzo.


E' un'oasi di riposo mentale, una pausa rilassante che anticipa le pesantissime e inevitabili prove-intervista del pomeriggio.

A queste ci penseremo poi; ora concentriamoci sul cibo e sullo scazzo.

A tavola, se si potesse, ci distribuiremmo come nei pranzi dei vecchi manieri medioevali: a capo tavola i re o feudatari (nel nostro caso, capo area e direttore vendite), dall'altra parte in fondo e ben lontani, tutti noi mezzadri, servi della gleba, bassa manovalanza. Felici di stare in disparte. Invece qualcuno che si sacrifichi e stia vicino ai boss, ci vuole sempre. Per loro il pranzo non sarà molto rilassante: dovranno dosare parole e frasi, perché ciò che diranno sarà minuziosamente analizzato e reinterpretato, con rischi elevati per la loro reputazione.

Io, anche se mi tengo sempre a rispettosa (non sia mai!) ma elevata distanza dal pericolo, non riesco a rilassarmi completamente.

Sbriciolo il pane e spezzetto tutti i grissini, pensando e ripensando alla mia vita. Lavorativa, s'intende; l'altra, quella vera, qui non interessa.

Federico, come sempre sorridente e tranquillo (che rabbia!), si siede accanto a me.

“Che hai?”

“Nulla. I dati...”

“Ma se vai benissimo!”

“Sì ma, il cento che non è ancora cento... mi fa rabbia, ecco! Mi critico prima che lo facciano altri, che so useranno ben altri guanti!”

“Senti a me: meglio avere 99 che cento! Con il primo, puoi sempre migliorare, o promettere di farlo; con il secondo invece il peggioramento è inevitabile! Viviamo tutti appesi a un filo! Non parlo del destino, ma della sfiga! Se si potesse trasformare tutto in un algoritmo e andare a colpo sicuro! Pensa: introduci i dati e fai quello che dice il computer!”

Sorride e ordina un piatto di tortellini in brodo.

“Beh, il rischio è che poi facciano fare tutto a lui!”

“Ah, questo è inevitabile. Non ci pensare!”

Ci provo.

“Vabbè, chi se ne frega! Tortellini anche a me!”

La ribellione è appena cominciata!

Ma si sa, non tutte le rivolte riescono col buco: passata l'euforia iniziale e ripreso il lavoro di riunione, riaffiorano i soliti fantasmi, correlati, questa volta, con la verifica pratica pomeridiana.

Ogni volta la sede ci propina depliant illustrativi sui nostri farmaci, quelli da mostrare al medico, ipoteticamente diversi, tanto per far vedere che lavorano anche loro, ma invece drammaticamente uguali a se stessi. Cambiano solo i colori dei grafici e le facce, sempre sorridente, degli attori utilizzati come testimonial della bontà dei nostri prodotti.

Bambini sorridenti, bellissime mamme allegre, papà palestrati che saltellano felici. Niente pazienti non pazienti e incazzati perché gli passi davanti in ambulatorio; madri con figli urlanti al seguito che non ti fanno leggere il libro che ti sei portato dietro per rilassarti nell'attesa; pensionati ficcanaso che ti descrivono i loro mali concludendo che i farmaci fanno tutti male, anche i tuoi, salvo poi essere sempre dal medico a pretenderli. Tra quelle pagine patinate e luccicanti sfila un mondo inesistente, proprio come quello della pubblicità.

Ormai non ci faccio nemmeno più caso e passo oltre.

I problemi sono altri.

Il primo si materializza immediatamente.

“Rondoni, comincia tu che sei bravo!”, afferma il capo.

Io bravo? Ma dove gli è nata questa malsana idea? Abbozzo e comincio.

Non riesco a essere sufficientemente preciso né abbastanza furbo da fingere un'intervista plastificata e falsa come si meritano e, in fondo, pretendono: mi fermo e commento, esprimo dubbi, divago. La rendo utile, cioè, ma loro non vogliono questo. E' tutto preventivamente deciso, finto e inutile, ancor più oggi che c'è il direttore che guarda e ascolta.

Un'inutile pantomima, per nulla divertente.

Qualche collega, tra un'intervista e l'altra, tenta di allungare il brodo con domande e riflessioni: lo scopo è solo quello di evitare il suo turno, che tanto poi arriverà.

E' il cosiddetto 'Giro di tavolo', alla fine del quale saremo tutti solo più stressati e non avremo imparato nulla.

A conclusione della riunione, mi è rimasto in testa un l'obiettivo: arrivare a quel benedetto cento e farla finita, una volta per tutte!


Torniamo a oggi.

Sono di nuovo in auto e sto per partire per un'altra giornata di lavoro.

Il primo medico ha lo studio in un piccolo paesino, vicino alla farmacia.

Nella testa ho ancora ben chiara mia missione.

Controllo nella farmacia di cui sopra, e ho la conferma che il mio prodotto non va.

Allora mi precipito nello studio del medico, deciso a porre rimedio a questa situazione.

Non è il momento dei depliant illustrativi e delle belle parole, ma delle domande chiuse e delle promesse da ottenere a qualunque costo.

Quando chiedo ragione della situazione al medico, vedo i suoi occhi appannarsi.

Mi guarda in silenzio, poi prende tra le mani il campione del farmaco di cui chiedevo spiegazioni e lo getta nella mia borsa aperta. Quindi mi fa segno di uscire.

Capisco subito che ho fatto una cazzata. Lo conosco da anni e dovevo sapere che non era la persona adatta per una mossa del genere. La fretta, la paura, l'ansia del momento: tutte cattive consigliere. Esco mogio mogio, poi rientro, e gli chiedo scusa. Lui umanamente decide di concedermi una seconda possibilità.


A volte mi sento come Paperino in quel cartoon in cui deve impedire a una talpa di rovinargli il giardino, allora comincia a chiudere i buchi, ma sono troppi e la talpa gli esce fuori sempre da qualche parte. Sono sicuro che Paperino si è sempre sentito il numero 99.

Anche io ora mi sento così; so che questa sensazione si andrà stemperando, diluendosi negli impegni della giornata, anno dopo anno, ma, per un po’, mi sentirò come il numero che ambisce a essere cento senza riuscirci.



mercoledì 24 marzo 2021

Molly

La guardia del campus universitario aveva detto loro che non risultava alcun appuntamento concordato con i ricercatori del laboratorio di biologia. Alla fine li aveva fatti passare comunque, avvertendo però che "a quest'ora non troverete più nessuno". 

Il camioncino della televisione locale si fece strada tra le viuzze ormai deserte del campus e il fonico al volante, a un certo punto, si rivolse al giornalista seduto al suo fianco: "ma mi dici dove devo girare? Qui non si capisce niente!".
"Non lo so, Google map non aiuta, cerchiamo dei segnali". 
Alla fine li trovarono, li seguirono e in poco tempo arrivarono davanti al laboratorio. "Ok, fermati, ci siamo", disse il giornalista. 
Scesero in tre, compreso il cameraman che era dietro nel furgone con l'attrezzatura e suonarono un campanello con sopra scritto in modo gotico "House of Molly".

"Ma che fate qui a quest’ora?", chiese un anziano signore con una tuta blu che era venuto ad aprire. 
"Avevamo un appuntamento con gli scienziati" rispose il giornalista. 
"A quest’ora i ragazzi sono a casa loro o nei dormitori, qui ci sono solo io, e tra un'ora vado a mangiare. Mi sa che non vi siete proprio capiti", fece presente l’anziano signore.
"Ma avevamo un appuntamento!", ribadì il giornalista, "dovevo intervistarli per il serpente gigante; l'ano..., l'ana...".
"L'anaconda" terminò la frase l’anziano signore. "Avete un qualcosa di scritto da farmi vedere?", proseguì.
Il giornalista tirò fuori lo smartphone e gli fece vedere sul display il colloquio su Whatsapp tramite il quale era stato disposto l’appuntamento; effettivamente un accordo c'era stato ma non era chiaro per che ora.
"Un errore di qualcuno" concluse l’anziano signore, "ma siete venuti fin qui quindi vi faccio entrare. Io sono il custode e penso si possa dire che sono anche il custode di Molly".
Entrarono con l’attrezzatura e si ritrovarono in un ambiente bianco e spoglio, una sorta di reception con un bancone e due PC sopra di esso, spenti.
"Noi qui ci occupiamo principalmente di serpenti costrittori' disse il custode, "e fino all'anno scorso qui era pieno di immagini appese di grossi boa e pitoni ma il nuovo direttore le ha fatte tirar giù, perché dice che non danno un'aria da laboratorio, solo che ora qua fa proprio schifo. Ma poi migliora, seguitemi".
Si infilarono in un largo corridoio che finiva su una porta antincendio. Il custode la aprì con una chiave del mazzo che aveva con se é li fece entrare in un ambiente anch'esso bianco. Una volta tutti dentro chiuse a chiave la porta. 
"Vi trovate in casa di Molly" disse il custode. "Dietro di voi c'é la cucina con cui gli prepariamo i pasti. Mangia una volta la settimana. Ah, niente animali vivi solo dei papponi fatti da amminoacidi, grassi a corta catena e tanta tanta vitamina C. Più altra roba che i cervelloni dicono l'abbiano fatta crescere così tanto", concluse. 
"Quanti hanno ha Molly?", chiese il giornalista 
"É più giovane di me, quando io arrivai qui a 25 anni era lunga 50 centimetri, ora io ho 75 anni e non sono andato in pensione per lei, perché praticamente da sempre i pasti glieli preparo io e in 50 anni di matrimonio ormai ci conosciamo bene", e strizzò l'occhio al giornalista.
Questi fece una risatina, e disse con aria di compiacimento: "aah, nozze d'oro dunque. Ma dov'è?"
Il custode indicò un lato della stanza interamente occupato da una saracinesca: "lì dietro c'è la vasca. É torbida per riprodurre il suo habitat e quindi la vedrete comparire improvvisamente. Non spaventatevi perchè non ce n'é motivo".
Così dicendo afferrò un grosso pulsante che pendeva dal soffitto e spingendolo, innescò il sollevamento della saracinesca mentre il giornalista disponeva la giusta posizione di fonico e cameraman.
Mentre cominciava a vedersi la vasca il custode chiese: "va bene la luce? Lo so che é importante perché non siete mica i primi eh. Ogni 10 anni viene qualche televisione a fare un servizio su Molly. Una volta venne addirittura la CNN. Solo che Molly allora era più piccola".
La pesante saracinesca scomparve in un grossa fessura del soffitto e la vasca fu in piena vista; dal loro lato non arrivava al soffitto ma lasciava parecchio spazio, "per poter fornire il cibo a Molly" spiegò il custode.
I tre inviati erano come in trance agonistica, un po’ perché era un ambiente inusuale, un po’ perché una certa paura l'avevano, i filmati di repertorio erano abbastanza impressionanti.
"No-no-no" rispose solo allora il giornalista, "la...la luce va bene".
Il custode si avvicinò allo spesso vetro della vasca e picchiettò le dita sopra di esso. Una sagoma indistinta si rese visibile e avvicinandosi al vetro anche la lunghezza delle spire fu palese e quando il corpo del serpente si poggiò sul vetro e si videro i disegni delle squame fu evidente che l’animaletto era enorme. 
"Molly è un’anaconda verde, Eunectes murinus" spiegò il custode. È lunga più o meno 15 metri e pesa più di mezza tonnellata. Esattamente non lo sappiamo, abbiamo smesso di pesarla quando ha superato i 10 metri, anni fa, perché era diventato impossibile. É l’incarnazione vivente del mito dei serpenti colossali dell'amazzonia e anche un grande risultato della scienza, ma in questo campo non so molto e dovreste parlare con i ragazzi".
I tre inviati erano terrorizzati ma il giornalista fece il suo mestiere e chiese: "e la t...testa?". 
"Molly non é vanitosa" rispose il custode sorridendo. "La testa la tira fuori solo per mangiare e questa settimana il giorno è domani".
"Farebbe male a M...molly anticipare di qualche ora?" chiese il giornalista
"No, immagino di no. Ma non ho il permesso... ". Ci pensò un po’ su poi disse: "però se spegnete la telecamera vi faccio vedere. Capita che non abbia fame e nessuno si preoccupa se la cosa non si ripete".
Il giornalista si rivolse allora al cameraman e, facendogli l'occhiolino, disse: "spegni".
Il custode si girò e si diresse verso la zona cucina. Si mise dei guanti di lattice e tirò fuori, da cassettoni posti in basso sotto il piano di lavoro, dei sacchi. Lì pesò su una bilancia di metallo e poi ne rovesciò il contenuto, polveri biancastre, dentro una grossa planetaria per impastare. 
Poi aggiustò di acqua per ottenere la consistenza desiderata e in pochi minuti preparò "la pappa": un impasto bianco latte molto elastico cui diede, con le mani, forma globosa. Nè risulto una cosa non tanto diverso da un uovo di struzzo o una testa umana, come dimensioni.
"Lo vedete? Non sembra roba per serpenti, i ragazzi lo chiamano mochi, perché dicono che sembra quello strano dolce di riso giapponese", disse il custode. "Ora lo ammollo in una specie di burro di vitamina E, così scivola e Molly riesce a ingoiarlo". 
Così fece e poi, con quella palla bianca poggiata su una mano, bussò con l'altra di nuovo il vetro della piscina. Forse lo fece in modo diverso o forse la seconda volta voleva dire pappa pronta, fatto sta che Molly, stavolta, sollevò la testa. Molto più grande di quello che ci potesse aspettare, lunga come il capo di un cavallo. 
Poi allungò il collo verso il basso e aprì la bocca. "Eh visto i denti? Sono lunghi 4 pollici. Ma sono rivolti all'indietro quindi afferrano la pappa e la trattengono ma la lasciano scivolare nella gola" disse sorridendo il custode. Prese una scaletta di legno, la aprì e montandoci sopra allungò la palla biancastra verso le fauci di Molly.
L'anaconda, afferrato l'impasto, sollevò la testa verso l'alto e deglutì il boccone che scese lungo il collo, per un po’ visibilmente, poi scomparve. 
"Eh? Che ne dite?" disse eccitato il custode. 
"...ellissimo" rispose deglutendo il giornalista, ma si affrettò a dire: "ora però ci apra che dobbiamo andare. É tardi, molto tardi, é tardissimo!".
I 3 si affollarono contro la porta antincendio con un tale fervore che il custode si affrettò anche lui ad aprire poi lo salutano dicendo che conoscevano la strada e lui, nel giro di un minuto, si ritrovò solo con Molly che aveva ancora il capo sollevato in alto come se aspettasse qualcosa'altro.
"Vieni vecchia amica. Fai in giretto fuori. Dopo pulisco e non se ne accorge nessuno", disse il custode.
I serpenti sono sordi, e anche se non lo fossero non capirebbero il linguaggio umano. Ma Molly capiva. Forse un gesto delle mani, forse un cenno del capo. Come altre volte Molly si mosse e lentamente trascinò il suo lungo corpo fuori dalla piscina e andò a trovare il suo vecchio amico, così, per passare un po’ di tempo assieme.

"Cazzo hai? Sei fatto? Mi fai rubare una macchina e poi non sai dove andare?" disse il ragazzo più alto. 
"Ma fanculo che lo so", rispose l'altro, "gira lì a destra, poi di nuovo a destra che ti faccio vedere una cosa".
Girarono in una strada stretta e poi in un'altra ancora più stretta che finiva a fondo cieco, poco dopo l'entrata.
"Ma che cazzo!? Ma dove siamo?"chiese il ragazzo più alto
"Siamo in un angolo del campus che non caga nessuno. Non ci sono guardie e si entra facile. Dai che ci infiliamo dentro!" esclamò l'altro.
"Ah, sai che figata...entriamo in un posto dove non c'é niente, solo coglioni che studiano. Mi sa che ti butto fuori e me ne vado" disse il ragazzo più alto 
"Conosco due ragazze la dentro. La sera fanno feste e si fa di tutto. Di tutto ti dico. Poi sono fighette che gli piacciono gli sbandati, se la tirano con i secchioni ma noi concludiamo. Te lo giuro, l'ho già fatto, é uno sballo" disse l’altro 
"Ok, andiamo. Se mi freghi la paghi" disse il ragazzo più alto

Il custode stava per abbassare la saracinesca quando sentì delle voci, piuttosto forti. Sembravano provenire dalla reception così lascio lì e si mosse per andare a vedere. Socchiuse la porta del laboratorio che era rimasta aperta da quando era andata via la troupe della televisione e iniziò a percorrere il corridoio. 
Mentre lo percorreva pensò "accidenti! Non ho chiuso e degli studenti del primo anno si sono infilati dentro". A quelli del primo anno, i pivelli, capitava che gli facevano delle iniziazioni e li mandavano in giro, ubriachi fatti e vestiti nei modi più strani.
Quando arrivò in reception vide che c'erano effettivamente due ragazzi, uno alto e uno basso e tarchiato che litigavano, litigavano così tanto che non si accorsero neppure di lui.
"Ehi! Chi siete? Che fate qui? Uscite e andate nei vostri locali! Se no vi segnalo e passate dei guai!" urlò per farsi sentire.
I ragazzi smisero di litigare, si guardarono un attimo, poi il più alto parlò: "ma fanculo nonno! Non sono mica uno studente del cazzo."
"Allora chi siete?" urlò ancora più forte il custode, "adesso chiamo la guardia e vi denuncio!". 
Aveva appena finito la frase che quello tarchiato si mosse; gli volò addosso e lo spinse così forte da farlo arrivare a metà del corridoio.
Cercò di restare in piedi ma non ci riuscì e, al termine della caduta, finì a terra di schiena e sbatté anche la nuca sul pavimento, tanto da restare un poco stordito. Il dolore forte però lo fece riprendere quasi subito e, con fatica, si girò, si mise in ginocchio e si alzò farfugliando: "polizia, chiamo la polizia, la polizia..." e si avviò verso il laboratorio. Aveva appena varcato la porta di sicurezza che si senti afferrare da dietro per i capelli, fu costretto a girarsi e vide il volto del giovane tarchiato poi sentì un dolore forte allo stomaco e poi di nuovo più in basso. Perse subito conoscenza e finì al suolo.
Quando, poco dopo, arrivò anche il giovane alto trovò l'altro con il coltello insanguinato ancora in mano tenuto dritto in aria.
"Ma tu sei proprio fuori, sei matto, ma vaffanculo!" disse e si diede alla fuga.
L'altro guardò il vecchio a terra, poi rimise in tasca il coltello, si girò e fischiettando e senza fretta si avviò anch'esso.
Passarono i minuti. 
I serpenti, come detto, sono sordi. Forse fu per le vibrazioni di un evento inusuale trasmesse all'acqua della piscina, forse la saracinesca restata aperta, fatto sta che Molly uscì di nuovo. Scivolò al suolo fino al corpo del custode, lo toccò più volte con la lingua, poi girò il capo altrove e, continuando a tastare il terreno con la lingua, si soffermò in un punto di fronte al corpo morto del custode, vicino alla porta restata aperta. 
Poi si mosse e cominciò a seguire la sua pista.

"Esci dall'auto coglione! Esci! L'ho rubata io, tu hai fatto solo casino. Arrangiati! Esci!" urlò il ragazzo alto mentre faceva partire il motore.
E continuava a urlare spegnendo e riaccendendo il motore perché l'altro non si muoveva dal sedile. "Allora?!" disse a certo punto, "ti devo buttare fuori io, sfigato?"
L'altro che era stato zitto e immobile fino a quel momento, si girò verso quello alto e lo guardò. Poi fece uno scatto e gli mise il coltello sotto il collo: "adesso mi hai rotto" disse con voce calma. Te la tiri tanto ma non vali un cazzo. E te la fai sotto perché ho sbudellato quel vecchio di merda". Quando vide la paura negli occhi del compagno si ritenne soddisfatto: sorrise, lentamente allontanò il coltello dalla sua gola, aprì lo sportello e uscì. Si girò un attimo prima di chiudere lo sportello e disse: "sei tu lo sfigato".
Quello alto, rimasto solo, appoggiò la fronte al volante e sospirò. Stette così quasi un minuto, poi avviò l’auto ma i tanti accendi e spegni avevano ingolfato il motore. Non c'era verso di farla ripartire.
"Oh porca puttana, adesso mi tocca aspettare qui...ma vaffanculo!" ringhiò al nulla.
E sembrò che il nulla rispondesse: prima quasi impercettibilmente, poi in maniera più chiara le sospensioni posteriori dell'auto si abbassarono come se qualcuno stesse salendo sul portabagagli. Poi il peso si spostò sopra l'auto che si stabilizzò con fatica dondolando, infine il vetro davanti fu occupato da qualcosa che iniziò a scivolarvi sopra, qualcosa di grande e lungo che passava e passava e sembrava non finisse mai. Il ragazzo non stava capendo nulla ma alla fine distinse una grossa coda. 
Alla fine l’auto si alleggerì, e le molle delle sospensioni la spinsero verso l'altro di diversi pollici. Ma il sollievo contemporaneo del mezzo e del suo occupante durano poco.
Fuori, di fronte al parabrezza si sollevò lentamente una grossa testa che si fermò a mezz'aria.
Mentre il ragazzo dentro l'auto tratteneva il respiro la grossa testa si spostò un po’ a sinistra poi un po’ a destra, lo fece diverse volte per poi fermarsi e resto lì come a scrutare dentro l'auto di fronte a lei, oltre il vetro. Stette immobile così per qualche minuto poi si ritrasse e solo allora il respiro del ragazzo tornò e lo fece così violentemente da farlo tossire.
Questo soffocò a fatica i colpi di tosse e non ebbe il coraggio di muoversi ancora per un bel po’ finché, finalmente, urlò: "cazzo! Cazzo!! Cos'era? Cos'eraaaa?!?", accese l'auto, mise la retromarcia e schizzò via dalla stradina a fondo cieco.

Fuori dal locale notturno il ragazzo tarchiato si stava pavoneggiando con due appena conosciute. Le aveva invitate a bere qualcosa fuori che dentro non si poteva parlare, la musica era troppo alta.
Lui si sentiva in palla come non mai. Era stata la giornata più bella della sua vita.
Si era fatto rispettare da quel coglione spilungone che credeva di sapere tutto, aveva goduto vedendo la paura di morire nei suoi occhi, lo aveva fatto sentire potente. Poi gli dava un casino di soddisfazione aver sbudellato il vecchio e non provare nessun rimorso.
Dicevano che se ammazzi qualcuno poi ti penti ma lui non si sentiva pentito, anzi. Sentiva un che di potenza. Togliere la vita di qualcuno era l'atto di forza più stimolante che avesse mai fatto.
Una volta aveva picchiato un giallo che lo aveva offeso perché toccava degli oggetti nella sua bottega sporca ma era stato meno emozionante. Stavolta era diverso.
Anche con le ragazze si sentiva diverso, sentiva che ora non avrebbero potuto dire di no. E infatti due, molto carine, lo avevano seguito fuori dal locale dopo che gli aveva pagato la birra e non erano le fighe marce che rimorchiava di solito, sembrava pendessero dalle sue labbra.
"Allora tu sai rubare le auto?" disse una. 
"Sì, ma non lo faccio spesso, solo se serve" rispose per alleggerire la menzogna che aveva appena detto. 
"Ma fai tutto da solo?" chiese l'altra.
"Ma...a volte viene un’altro... un ex amico, adesso abbiamo litigato"
Una delle due era evidentemente furbetta e intuì che era tutta una ruota di pavone e disse: "dai! Ci prendi in giro! È il tuo ex-amico che sa come si fa a rubare le auto!"
"Cazzo" penso il ragazzo tarchiato, "cosa vuole 'sta troia?"
Ma lei proseguì: "se sai rubare le auto aprì quella là", disse indicando una Mustang parcheggiata poco distante, nel parcheggio di fronte al locale; "se ci fai fare un giro su quella io e la mia amica ti saremo...riconoscenti" concluse con un sorriso.
Restò un attimo interdetto poi disse: "lo faccio". Si diresse all'auto che era a una decina di metri da lì, si fermò davanti allo sportello e fece per inginocchiarsi, poi cambiò idea e andò dall'altra parte dell'auto in modo da non essere in vista per le ragazze. Pensò che se fosse stato coperto dalla vettura e non alla luce piena dei lampioni si sarebbe visto meno che non era capace e magari, pensò, smanettando ci poteva riuscire anche lui, "visto che ci riusciva quel vigliacco dello spilungone".
"Ehi! Perché ti nascondi?" Chiese la ragazza furba.
"Le auto si rubano aprendo dalla parte di chi guida" rispose dicendo la prima cazzata plausibile che gli venne in mente.
A questo punto tirò fuori l'unico strumento che aveva a disposizione: il suo coltello, solo che da quella parte non si vedeva quasi nulla.
Trovò la serratura scorrendo la mano sulla portiera e iniziò a spingere la punta del coltello dentro il buco per la chiave ma, anche torcendo l'arnese, non succedeva nulla, ottenne solo di rigare la carrozzeria.
Capì presto che la figura di merda era imminente e incominciò, per la rabbia, a tirar calci allo sportello e nel frattempo tra le ragazze cominciavano a montare delle risatine.
Era così furioso che gli cadde a terra in coltello, nel buio ai piedi dell'auto.
"Porca puttana" ringhiò e guardò in basso senza vederlo.
"Porca puttana" ripetè e ormai non gli fregava più delle ragazze ma solo di ritrovare il suo coltello. 
Dovette mettersi a carponi per essere più vicino a terra e comincio a tastare il suolo vicino alla ruota posteriore dal lato in cui gli era caduto.
A un certo punto toccò il coltello ma non fu il solo. 
Nello stesso momento anche la lingua di Molly sfiorò il metallo che aveva ancora piccoli grumi di sangue rappreso e mano e lingua biforcuta si incontrarono sulla lama.
Molly ha un cervello matematico come tutti i serpenti. Non ci sono sfumature, ad uno stimolo corrisponde una reazione. E Molly reagì.
Face scattare in avanti i muscoli del collo e aprì la bocca chiudendola sul capo del ragazzo. I denti lunghi si piantarono sulla nuca bloccandola e quelli inferiori penetrarono nella gola fino alle giugulari tagliandole.
Il ragazzo cominciò a urlare e agitare gli arti ma il rumore usciva attutito visto che tutta la sua testa era chiusa nella bocca del serpente.
In poche decine di secondi il suo stesso sangue gli colò nella gola soffocandolo e dopo gli ultimi colpi di tosse, smise di muoversi.
Allora Molly allentò i muscoli del cranio e sganciò le mandibole per allargare la bocca; questa divenne una sorta di tubo irregolare e Molly la protese in avanti fino alle spalle del ragazzo e facendo presa su quelle iniziò a tirar dentro il resto del corpo nella propria gola.
Ci vollero solo pochi minuti 

Le ragazze pensarono che quel goffo ladro di macchine fosse fuggito nel buio per la vergogna e dopo poco rientrarono nel locale.
Al proprietario della Mustang prese quasi un colpo quando, tornando all'auto ubriaco alle prime luci dell'alba, vi trovò accanto, tutto arrotolato su se stesso, un enorme serpente.

Che digeriva

domenica 14 marzo 2021

 STORIE DA UN ALTRO UNIVERSO

SECONDA STORIA

UNA STORIA PICCOLA, PICCOLA


Guardo la mano che galleggia davanti ai miei occhi, agita nell'aria cinque vermicelli pallidi che sembrano avere vita propria e si muovono come per attirare la mia attenzione. In mezzo al loro candore vedo spiccare alcune piccole macchie di un vivido colore rosso che brilla colpito dalla luce del lampadario.

Mi pare di sentire una voce.

  • Guarda cosa hai fatto!

Obbedisco e guardo.

Rabbrividisco al pensiero di quello che le macchie rappresentano e che le dita sembra vogliano ricordarmi.

Come se ce ne fosse bisogno.

Io ricordo tutto, perfettamente.


  • Buongiorno, dottore! Come va?

Frase pericolosissima ma necessaria. Si chiamava “mettere a proprio agio” e faceva parte della prima parte del rito della cosiddetta intervista, quella che facevo giornalmente ai miei clienti medici.

Le loro reazioni di solito erano di due tipi: qualche frettolosa frase di circostanza, come ad esempio:

  • Sì, sì, tutto bene, mi dica...

oppure l'inizio di uno sfogo, articolato e interminabile:

  • Male, malissimo, ora le racconto...

In questa lotta senza fine tra due necessità, la mia di farmi ascoltare e la loro di trovare un minuto di pace dall'ansia quotidiana, eravamo ovviamente noi, gli ospiti spesso solo sopportati, a dover fare un passo indietro con pazienza e rassegnazione.

La nostra non era gentilezza o umana comprensione, ma semplice e opportunistico pragmatismo: un cliente tranquillo e soddisfatto è sicuramente più disponibile all'acquisto.

Sia chiaro: noi non vendiamo nulla, almeno non direttamente.

Il dottore che avevo davanti, il primo della giornata, scelse la prima via e fece un brusco cenno con la mano:

  • Accomodati che non ho tempo da perdere!

Io questa cosa del tempo che si perde non l'ho mai capita.

Sarà perché a fare lunghe file d'attesa si finisce per diventare un po' filosofi, coltivando la pazienza come suprema virtù, o perché siamo costretti a rendere utile ogni minuto che ci è concesso, ma per me il tempo non è mai perso, semmai guadagnato, almeno fino a prova contraria.

Eppure questa frase la sentivo spesso, ad esempio nelle sale d'attesa, come se le persone fossero costrette a stare lì contro la loro volontà e con impegni ben più urgenti da soddisfare.

Era la fretta a farli parlare, la maledetta fretta. Quella che io non potevo permettermi.

Comunque decisi, come al solito, di sedermi senza fare commenti.

Mi guardai meccanicamente intorno alla ricerca di qualche indizio che potesse servire a rendere proficua la visita.

Sulla scrivania del medico, in mezzo a fogli e ricette, c'era una pila di depliants, segno inequivocabile del passaggio di innumerevoli altri colleghi. Dalla sua altezza si poteva dedurre il tempo trascorso (i mesi, gli anni, le ere), come le stratificazioni geologiche in un terreno.

Cercai il volto del medico dietro a quella fortificazione, alla ricerca di un sorriso.

Non vidi nulla; allora provai a essere io il primo, a sciogliere quel iceberg di indifferenza. Sorrisi ma lui non contraccambiò; lo conoscevo da anni e dedussi che doveva avere avuto davvero una pessima giornata.

Si limitò a muovere il mouse sul tavolo per riattivare lo schermo del computer.

Poi, mentre fissava il monitor con attenzione, mi fece un altro cenno:

  • Ok sono pronto, comincia pure!

Allora cominciai.


La mia mano ha uno spasmo e si stringe, forma un pugno dal quale scivola e cade qualche goccia rossa.

La guardo in silenzio.

Per un momento la mia mente è vuota; ha messo in pausa tutti i pensieri.

Si limita ad attendere il prossimo evento, qualunque esso sia e chiunque sarà quello che lo dovrà compiere.

Mentre aspetto comincio a ricordare, a ricordare tutto.

Tutto, fin dall'inizio.


Io sottoscritto... nato a... laureato in chimica presso... chiede di poter sostenere un colloquio per un eventuale posto di lavoro inerente al proprio titolo di studio. Fa anche presente che...

Eccetera, eccetera.

Questo è sommariamente il testo di una delle innumerevoli lettere che spedii ad aziende che potevano essere interessate alle mie competenze.

Ancora poche, per la verità, ma se bastava la buona volontà o la semplice disperazione, allora avevo qualche chance di riuscita.

Dopo sette anni di università (quattro regolari più tre fuoricorso) e due di servizio civile, avevo solo le idee più confuse. Nella nebbia della mente, come un faro luminoso, brillava una necessità ormai inderogabile: avevo bisogno della mia indipendenza.

Ma soprattutto era la mia famiglia che non perdeva occasione di farmi notare che i tempi erano ormai maturi: quando trovai sulla porta della mia cameretta il cartello AFFITTASI, capii che dovevo seriamente darmi da fare.

Purtroppo le risposte ai curricula che spedivo quasi giornalmente, quando arrivavano, erano invariabilmente di questo tenore: Egregio dottore, la ringraziamo per aver scelto la nostra azienda. Siamo spiacenti, il nostro organico è momentaneamente al completo. Terremo in considerazione la sua domanda per un eventuale colloquio futuro.

Preso dallo sconforto, avevo pensato di sostituire il diplomatico: “Egregio dottore” con un patetico:“Vi supplico!” e poi, al colmo dell'esasperazione, con: “Brutti bastardi rispondetemi almeno!”.

Finalmente capitò la botta di fortuna.

Tramite Gastone, un amico di mio padre che era già inserito nell'ambiente, riuscii a ottenere il mio primo colloquio.

Passai la notte precedente vestito in giacca e cravatta a fare le prove davanti allo specchio per catturare la postura migliore, la mimesi facciale più adeguata, i gesti e il tono della voce più convincenti e ammalianti.

Quando finalmente spuntò il sole, ormai ottenebrato dalla stanchezza e dalla tensione, decisi che ero pronto per provare a convincere il mio futuro datore di lavoro.

L'appuntamento era fissato per mezzogiorno in un piccolo albergo del centro.

Prima di me, una lunga fila di almeno venti persone che, quando entrai, mi guardarono in cagnesco per un lungo istante, poi ripresero le loro mansioni: fare conchetta per sorvegliarsi l'alito, sistemarsi il nodo della cravatta con aria sconsolata come fosse il cappio della loro prossima impiccagione, tenere le braccia ben distese sui fianchi per nascondere le ascelle già madide di sudore, guardarsi la punta delle scarpe ripassando mentalmente ipotetiche domande e adeguate risposte.

Quando venne il mio turno entrai nella saletta prenotata per l'occasione e mi sedetti davanti a una piccola scrivania: di fronte a me una candida testa china impegnata a scrutare un foglio sul ripiano del tavolo.

  • Si sieda.

  • Sì, certo. Già fatto. Io sono...

  • Lo so. Ho qui il suo curriculum. Laureato, bene sì, ma dica: come mai tre anni fuori corso? Non le piaceva proprio studiare, vero? E sul lavoro, avrà la stessa serietà?

Mentre parlava aveva lentamente sollevato il capo mostrando due occhi penetranti, un sorriso ambiguo e strafottente che gli tagliava la faccia come una ferita.

Iniziai a tremare.

  • Io... no, ma... è solo che... un esame che non capivo...

  • Ah, lei non capiva... bene, bene. E mi dica...

Il colloquio continuò su questo tono irrisorio per altri dieci minuti durante i quali sudai, balbettando e bofonchiando scuse e giustificazioni per ogni cosa che mi chiedeva. La mia dignità era andata in vacanza e forse non sarebbe più tornata.

All'uscita credetti di leggere negli occhi degli altri in attesa i segni inequivocabili della mia sconfitta.

Il giorno dopo mi telefonò Gastone confermando il completo fallimento dell'impresa.

  • Mi hanno raccontato! Sei stato troppo remissivo! Quelli lo fanno apposta, vogliono testare il carattere dei candidati!

  • Ma mi ha insultato tutto il tempo!

  • E tu dovevi tenergli testa! Vabbè, ormai è fatta. Ho un'altra azienda comunque, sempre che ti interessi...

Certo che mi interessava, e questa volta non avrei commesso gli stessi errori.

Due settimane dopo, durante le quali avevo fatto pratica trattando malissimo chiunque mi capitava a tiro, bullizzando mia sorella e cercando di incrinare lo specchio con il mio sguardo più duro e cattivo, mi presentai allo stesso albergo, alla stessa ora, in mezzo a quasi le stesse persone della volta precedente. Le fulminai tutte con occhi assassini prevenendo ogni loro cordiale saluto, che comunque non venne, e mi misi ad aspettare in silenzio, digrignando i denti.

Quando fu il mio turno mi sedetti di fonte al rappresentante dell'azienda ma non gli detti il tempo di formulare alcuna domanda:

  • Senta, glielo dico subito: l'università è andata come è andata e questi sono problemi miei! Se mi vuole assumere bene, le assicuro che non sene pentirà! Sennò amici come prima e tanti saluti!

Lui mi guardò allucinato, restò alcuni secondi in silenzio, poi mi fece garbatamente segno che l'incontro era finito.

Mi accorsi dell'ennesimo errore e tentai un recupero in extremis, ma egli non volle sentire scuse.

All'uscita ero mogio e affranto e immaginai negli sguardi degli altri candidati lo stesso disprezzo che riservavo a me stesso.

  • Beh potevi almeno aspettare di capire chi avevi di fronte, no? Non sono tutti uguali! La prossima volta cerca di avere pazienza e di trovare una giusta via di mezzo! Sappi che sarà la tua ultima occasione. Non posso farti da balia per tutta la vita!

Per fortuna il terzo colloquio che mi procurò Gastone andò molto meglio.

Riesumai l'esperienza fatta un'estate di qualche anno prima servendo ai tavoli di un ristorante: gestire le emozioni, fingere opportunamente, accondiscendere sempre.

Riuscii a trovare un proficuo equilibrio fra tutto questo e la necessità di mostrare carattere e determinazione.

Fu un successo: il capo area con cui ebbi il colloquio mi scelse per l'ultimo incontro, quello determinante con il direttore generale dell'azienda.

Mi recai in sede a Milano in treno con pochi bagagli e tante speranze.

Alla stazione i miei genitori mi salutarono con la medesima enfasi che mi avrebbero riservato se stessi partendo per il fronte.

Arrivai all'appuntamento due ore prima del dovuto.

Il manager era un uomo elegantissimo con lo sguardo indagatore e il tono misurato di un padre confessore.

Alla sua sibillina domanda:

  • Senta, perché vuole fare l'informatore medico?, ebbi un attimo di titubanza.

Nella mia testa passarono veloci mille ipotesi di risposta: volevo diventare l'angelo benefattore che avrebbe portato guarigione e salvezza a milioni di infelici, desideravo mettere a frutto la mia laurea in chimica, era la mia ultima possibilità per tentare di rendermi autonomo.

Poi, ricordandomi ciò che mi aveva detto Gastone, che quello era un lavoro basato molto su vendita e guadagno, optai per un discorsetto enfatico, ampolloso ma, speravo, sagace:

  • Voglio far parte di un'azienda che mi renda orgoglioso e che io possa adeguatamente contraccambiare! Poi sa, ho fatto il cameriere per un po' di tempo e so benissimo quale faccia usare per rendere il cliente, e di conseguenza il mio datore di lavoro, pienamente soddisfatto!

Capii subito dal sorriso che gli esplose sulla faccia, che lo avevo convito: il posto fu mio.

Lo stipendio era buono, soprattutto per uno come me che fino al giorno prima tirava avanti a paghette e regalucci. Sembrava un lavoro interessante anche se ancora pieno di incognite. Le due esperienze precedenti mi avevano fatto capire che in quell'ambiente non tutto era come appariva e che per sopravvivere bisognava affinare alcune specifiche doti: la furbizia, per esempio, di capire chi avevo davanti per comportarmi di conseguenza; la pazienza di trovare la via migliore, quella più breve e redditizia, per ottenere il miglior risultato possibile. Girava tutto intorno a questo, ogni interesse e ogni ambizione.

Era molto stimolante e molti anche gli immediati vantaggi: indipendenza economica, una macchina aziendale, un lavoro all'aria aperta, pulito e dignitoso. Aveva sicuramente delle zone d'ombra ma le avrei illuminate più avanti. Per il momento l'importante era aver ottenuto un meritato posto al sole.

Così iniziò la mia carriera da informatore medico scientifico.


Mentre lo sguardo del medico continuava a rimanere fisso sullo schermo del computer, mi sistemai meglio sulla sedia e cominciai la solita tiritera.

  • Ecco dottore, le volevo chiedere: ha poi avuto modo di usare il mio farmaco? Sì? No? Vabbè, le dico solo due parole a ricordo, allora...

Estrassi la mia penna e iniziai a farla correre sulle pagine lucide del depliant che intanto avevo girato verso di lui per attrarre la sua attenzione, ma lui non mi guardava, gli occhi puntati sul qualcosa che calamitava tutto il suo interesse. Mi fece solo un cenno con la testa come a dirmi di proseguire. Starà lavorando, pensai.

  • Sì, dunque. Come vede dal grafico...

Feci oscillare la punta della penna nell'aria come a cercare di ipnotizzarlo ma ciò non sortì alcun effetto e lui rimase immobile nella sua posizione.

Allora, curioso, sbirciai nel riflesso dei suoi occhiali e vidi quello che vedeva lui: carte da gioco.

Il medico stava facendo un solitario al computer.

Altro che impegno inderogabile!

Sentii montare dentro una rabbia sorda, sorda ma non cieca, perché vedeva benissimo l'oggetto del suo odio.

Mi fermai un attimo di parlare e lui non ci fece caso. Se in quel momento avessi iniziato a declamare la Divina Commedia, non se ne sarebbe accorto.

Capitava spesso, sempre più spesso negli ultimi anni, che ci fossero segni fin troppo palesi di una mera sopportazione nei miei, nei nostri confronti.

Non era del tutto colpa loro, forse era solo una conseguenza della mia stanchezza.

Il medico la percepiva e ne approfittava.

La noia e la routine sono acerrime nemiche del nostro lavoro.

Quando precipiti in questo gorgo senza fine, non c'è speranza di risalirne facilmente.

Ci vuole qualcosa di emozionale oppure il sapere che da ciò dipende la tua sopravvivenza lavorativa.

Però ci voleva un capro espiatorio ed era difficile incolparsi di tutto.

Strinsi i denti e le mani a pugno, e aspettai che la rabbia e la frustrazione, passassero. Ma sembrava non ne avessero alcuna intenzione.


Di fronte a me, sul tavolo, c'è un lungo oggetto scintillante, lo stesso che fino a pochi secondi fa stringevo nel pungo. Anch'esso è macchiato di rosso e se ne sta lì come un soldato ligio al dovere che si riposa solo dopo averlo compiuto.

Sembra un coltello, un piccolo coltello affilato.

La mente ancora una volta cancella l'immagine e mi ripropone i ricordi, tutto quello che può servire a capire cosa mi ha condotto a questo momento.


Non conoscevo molto del lavoro che mi apprestavo a iniziare, perciò mi recai in sede per il corso di addestramento animato da un'intensa curiosità.

Non potevo pensare che fosse solo una questione di soldi, non volevo credere che tutto dipendesse da questo. Sentivo che ciò che mi aspettava offriva altre interessanti ed edificanti prospettive.

Furono tre settimane intense dove venni bombardato da un'infinità di nozioni: sul corpo umano e la sua fisiologia, sulle cellule e relativi nuclei e mitocondri, su dendriti e assoni, fagociti e linfociti, milza, pancreas, cuore e polmoni; tutta roba che conoscevo solo per sentito dire.

Poi la chimica delle molecole e degli atomi, le reazioni, i legami, gli acidi e le basi, proteine e amminoacidi. Tutta quella ribollente mistura alchemica che finiva condensata in pozioni, elisir, compresse, pillole e fiale.

Man mano che si approfondivano i vari temi, sentivo nascere in me un comprensibile orgoglio: era necessario essere scientificamente preparati, utili sì alla causa del datore di lavoro, ma anche, e soprattutto, a quella del paziente, del medico. Una non doveva necessariamente escludere l'altra. Sembrava che il mio lavoro fosse davvero la summa ottimale di tutti i vantaggi possibili e io un ibrido efficace tra Madre Teresa e Bill Gates. Florence Nightingale e Rockfeller.

In una quotidiana schizofrenica scissione mentale, mi immaginavo di distribuire gratuitamente farmaci salvavita ai poveri malati e contemporaneamente di accumulare denari su denari e vincere l'ambito premio di miglior informatore dell'anno.

L'ultima settimana era dedicata alle tecniche di vendita: fu allora che si profilò più nettamente l'obiettivo aziendale e il mio piccolo edificante castello in aria, iniziò a mostrare le prime crepe.

Ricordo ancora il piccolo cartoncino che ci distribuirono e che avremmo dovuto portare sempre con noi come la sacra immagine del nostro santo protettore: lo schema che ci avrebbe mostrato il giusto modo e la giusta via per ottenere successo.


Iniziare il colloquio

Argomenti generici, dichiarazione dello scopo, indagine indiretta

Indagine

Quando si vuole incoraggiare il cliente a rispondere = domane aperte

Quando volete limitare le risposte del cliente a un sì o u no = domande chiuse

Sostenere

Quando avete scoperto l'esigenza del cliente = apprezzatela, introducete il beneficio del vostro prodotto più adatto a risolverla

Concludere

Quando il cliente vi offre un segnale d'acquisto = riassumete i benefici del vostro prodotto, chiedete l'impegno del cliente su di esso

Affrontare lo scetticismo

Offrite prove

Affrontare l'indifferenza

Indagate per scoprire altre esigenze

Affrontare le obiezioni

Formulate tutte le argomentazioni possibili in sostegno del vostro prodotto.


Tra noi tutti, alle prime armi e invasi dal sacro fuoco della voglia di mettersi in mostra a ogni costo, si era instaurato un certo cameratismo, anche se in presenza dei capi ci guardavamo con sospetto cercando di non perdere terreno a favore degli altri.

Una piccola guerra psicologica che era sostenuta e incoraggiata perché avrebbe dovuto temprarci in vista delle prossime prove sul campo.

Non arrivammo a dover saltare nel cerchio di cuoco per dimostrare il nostro indomito valore, ma quasi.

L'unico effetto che questo aveva su di me era che, alla fine di ogni giornata, avevo immancabilmente un terribile mal di testa.

Dopo alcuni giorni dedicati alla teoria, gli ultimi dell'ultima settimana vennero utilizzati per fare pratica. Fu allora che, per la prima ma non ultima volta, provai l'emozione, di cui avrei volentieri fatto a meno e che invece mi assillò per i successivi dieci anni di lavoro, della cosiddetta prova-intervista.

Uno di fronte all'altro come due pistoleri che si sfidano a un duello al primo sangue: chi interpretava la parte dell'informatore e chi quella del medico. Un informatore sempre positivo, agguerrito e indomabile; un medico di volta in volta, carogna, pieno di dubbi e domande, disattento o silenzioso.

Dovevano essere utili esercitazioni per prepararsi alla pugna; in realtà ogni volta mi sentivo addosso gli occhi di capi e insegnanti che guardavano e giudicavano.

Uno stress insopportabile. Alla fine di queste torture facevo un rapido riassunto mentale degli indubbi vantaggi che avrei avuto e tiravo avanti.

In qualche modo il mese di corso passò e ora non restava altro che mettere a frutto quello che avevo imparato.


Finalmente il medico si accorse del mio silenzio.

  • Beh, non ha altro da dirmi?

  • Sì, aspettavo solo che avesse finito...

  • Io... sì, ho finito. Mi scusi, in realtà non stavo facendo nulla d'importante...

  • Me ne sono accorto!

Lui mi guardò fisso e strinse i pugni.

  • Senta, io non devo rendere conto a lei... No, davvero... oggi non è giornata, meglio che ripassi un'altra volta!

  • Certamente...

Forse aveva ragione, forse era nel suo pieno diritto di ascoltarmi o meno, ma il rispetto, quello almeno lo pretendevo. Capii immediatamente che mi stavo addentrando in un territorio pericoloso e controproducente. Ricordai il mio primo colloquio di lavoro, il consiglio di non perdere mai terreno di fronte al cliente, rimanere fermo nelle proprie posizioni facendo rispettare i propri diritti. Poi improvvisamente cadde la fatidica goccia, quella che fece tracimare tutto: il dubbio. Chi aveva ragione? Io o lui? Cosa potevo pretendere, in fondo? Questo mi fece perdere la calma e la sicurezza.

  • Può anche darsi che lei abbia ragione, ma io...

  • Non può darsi... ho ragione! Ora finiamola!

Un velo rosso iniziò a calarmi sugli occhi e non vidi più nulla. Solo la penna che mi serviva per illustrare il depliant e che ora stringevo più forte nella mano.


Ora guardo meglio e mi accorgo che quello che ho davanti non è un coltello, ma la penna, la solita che uso sempre, quella con il logo dell'azienda che nel manico ha una piccola lama da usare come tagliacarte. Un gadget, ne ho il baule pieno e sembra che non ne abbia mai a sufficienza da quanto medici e infermieri me ne chiedano sempre.

Una piccola cosa stupida che ora assume una grande importanza.

Improvvisamente vedo il quadro generale e lo riconosco: la mano, il coltellino, il colore rosso.

Tutto in fila, tutto logico e amalgamato alla perfezione.

Prima di chiudere il cerchio e farmi invadere, ancora una volta, dall'inevitabile e ingombrante realtà, mi permetto un'ultima divagazione.

Lo faccio perché so che sarà utile a spiegare tutto, ogni minimo dettaglio e anche l'ultima, più piccola tessera di questo strano mosaico andrà a posto.


La prima mattina del primo giorno di lavoro ci misi un'ora a prepararmi.

Lo schedario dei medici, una cartina topografica, l'elenco telefonico, bussola e sestante (la città è una jungla), un coltellino svizzero multiuso (non si sa mai), un pacchetto di grissini, una bottiglietta d'acqua e una mela per i pasti frugali, uno spray al peperoncino per i pazienti aggressivi, il quaderno degli appunti del corso, la tesserina con lo schema d'intervista, la pilotina piena di depliants, gadgets e saggi di medicinali.

Mia madre mi salutò con un palese sollievo, come se non dovessi tornare mai più a disturbare i suoi abitudinari ritmi quotidiani.

  • Vai figlio mio, il mondo ti aspetta!

Di questo non ero ancora troppo sicuro.

Il primo medico accolse il mio sorriso cinematografico e la mia calorosa stretta di mano con un secco:

  • Ah, lei è nuovo! Bene, sappia che da me non si perde tempo, né io né lei ne abbiamo a sufficienza! Mi faccia un rapido elenco dei suoi articoli e le dico cosa mi serve!

Il secondo mi accolse in canottiera.

  • Ah, mi scusi, mi stavo lavando. Questi pazienti, sono dei tali sporcaccioni! Ma venga, venga, non stia lì sulla porta! Si accomodi su questo divanetto e mi racconti come mai ha intrapreso il suo bellissimo mestiere!

Il terzo fu brusco e sintetico.

  • So tutto! Non mi serve niente!

Il quarto, invece, gentilissimo.

  • Sì, interessante... E questo come dice che si usa? Sa, io ero abituato ad usare altro... Vada avanti, mi interessa davvero!

Il quinto guardò il ripiano della scrivania per tutto il tempo; tentai di illustragli i miei “articoli” ma ogni campione che lasciavo, veniva afferrato e gettato con matematica precisione sopra a una montagna di altri suoi simili che giaceva sul pavimento alla sua destra.

La cosa assunse subito la monotonia di una vera e propria catena di montaggio: intervista, campione, volo, atterraggio; intervista, campione, volo, atterraggio. Dopo un po' mi stancai e tolsi il disturbo, sempre accompagnato dal suo più assoluto silenzio.

La mia fervida fantasia mi fece immaginare di sentire i flebili lamenti dei miei campioni farmaceutici abbandonati sul pavimento come cagnolini in autostrada.

Il sesto, e ultimo della mattina, aveva la mia età, trenta appena compiuti, e le mie stesse insicurezze per un lavoro che anche lui aveva iniziato da poco. Ci piacemmo immediatamente, i disperati si annusano e si riconoscono, diventammo amici e lo siamo tutt'ora.

In poche ore avevo passato in rassegna tutta la variegata tipologia dei medici che avrei incontrato nei miei successivi dieci anni di carriera.


La mia ditta, come tutte le altre d'altronde, aveva una struttura piramidale: sopra la testa che decide, sotto le gambe che corrono.

Ognuno di noi aveva il suo supervisore, il capo-area, che faceva da tramite tra noi e la sede; il tentacolo aziendale che saggiava la situazione territoriale, la analizzava e la giudicava.

Venivamo giudicati per le vendite, i dati, che forniva il territorio.

Lui era, nel migliore dei casi, un buon papà e, nel peggiore, un cerbero pretenzioso che pensava di aver assaggiato il frutto della conoscenza e si sentiva in diritto di insegnarti ciò che aveva imparato.

Non perdeva occasione per dispensarti le sue perle di saggezza, proverbi, modi di dire o frasi a effetto, tutto opportunamente adattato alla situazione contingente: i risultati sono inaccettabili, i dati in crollo verticale, bisogna prendere il medico per la collottola, questo è un momento epocale, non fasciamoci la testa prima di essercela rotta.

Il mio era un omone dalla barba folta e grigia, le dita macchiate di nicotina che faceva correre sui grafici delle analisi di mercato e gli occhi che mandavano lampi mentre illustrava la mia situazione, perennemente tragica e disastrosa.

I suoi cosiddetti affiancamenti erano per me stilettate nel costato, rigurgiti di bile, extrasistoli a raffica.

Per fortuna veniva a farmi compagnia non più di una volta ogni tre mesi.

Per la maggior parte del tempo ero solo con problemi e pensieri, un nomade in un lungo e perenne viaggio d'affari.

Gli informatori vivono una stretta simbiosi con la loro automobile, ormai trasformati in esseri cibernetici, mezzi uomini e mezze macchine.

Come chiocciole vaganti ci trasciniamo dietro la nostra casetta piena di comfort.

La usiamo come nave da guerra, tavola da pranzo, camera da musica, sala da lettura, letto per il riposino postprandiale, sancta sanctorum in cui meditare e pianificare. il nostro più sicuro rifugio.

Il baule è una cantina piena degli attrezzi utili per il nostro lavoro: saggi, depliants, omaggi, riviste, documenti.

Se qualcuno ci vedesse, nel parcheggio di qualche ospedale immersi fino alla vita nelle sue profondità alla disperata ricerca del campione perduto, le gambette che si agitano freneticamente nell'aria per mantenere l'equilibrio, sembreremmo dei neonati che tentano di portare a termine il loro parto podalico.

Affrontiamo ogni giorno le insidie del traffico cittadino come rompighiaccio che tentano di farsi strada nel pak, tra colonne ininterrotte, trincee e cavalli di frisia di interminabili lavori in corso, fiumi di macchine e camion, tutti disperatamente alla ricerca del nostro posto al sole, anche solo di un parcheggio.

Il nostro è un lavoro che si muove in un mondo in cui vigono leggi, regole e dinamiche comportamentali assolutamente originali, che al suo centro perfetto c'è l'Yggdrasil, il Farmaco, la Cura: il paziente la pretende, il medico la cerca, l'informatore la propone.

Dieci anni in questo ambiente sono tanti e rischiano di portarsi via energie, ambizioni e aspettative.

I colleghi più anziani mi avevano raccontato di una situazione lavorativa, quella che loro avevano vissuto anni prima, dove ogni nostra visita veniva accolta con tripudio e gioia, lanci di petali e confetti, tappeti rossi e fanfare squillanti, mentre il tempo quasi si fermava, i pazienti s'inchinavano al nostro passaggio e il medico chiudeva l'ambulatorio e si prendeva una mezza giornata di pausa in nostra compagnia.

Racconti mitologici ai quali avevo fatto fatica a credere, soprattutto quando mi ero reso conto che invece non tutto era rose e fiori.

Anzi. Il mercato era in espansione e la concorrenza si moltiplicava. Ne facevano le spese la spontaneità, la pazienza, la tolleranza. I risultati dovevano essere sempre migliori e sempre più veloce il tempo per ottenerli.

Ma la realtà ti sorprende sempre e dopo i primi nove anni il bilancio tra delusioni/amarezze versus soddisfazioni/successi, era perfettamente in pareggio.

Avevo preso confidenza con i miei clienti, sapevo quali tasti toccare per raggiungere gli obiettivi, anche solo andarci vicino tanto da sopravvivere e continuare a divertirmi.

Qualche volta spuntava un farmaco utile e interessante; il medico ti stava a sentire volentieri e quando ti diceva che lo aveva usato e il paziente era rimasto soddisfatto, mi sentivo quasi orgoglioso di un lavoro che era anche piacevole e soddisfacente.

Come un Picasso del farmaco ebbi il mio periodo rosa con la pillola che combatteva l'ulcera e la gastrite, e il periodo blu con quella che risolveva le crisi di prestazione sessuale.

Mi regalai anche un paio di cambi di azienda, per provare a migliorare guadagni e soddisfazioni.

Poi, tutto cominciò a cambiare.

Mi ero già accorto che l'aziendale testa pensante a volte pensava male e allora noi, le gambe correnti, dovevamo correre più in fretta per sopperire ai suoi errori.

Errori che venivano giustificati dal periodo contingente, dalla crisi del settore, dalla mancanza di novità davvero sensazionali. Vero, in parte, ma comunque non sufficiente a giustificare ciò che accadde.

Quello che all'inizio era il comune bisogno di progredire, nostro e dell'azienda, stava per dividersi in due obiettivi ben diversi: l'azienda cercava di proteggersi riducendo le spese, noi di sopravvivere aumentando i guadagni. IL primo era facile, Il secondo molto più complicato. Tutto si stava trasformando in una guerra aspra e violenta, senza vincitori ne vinti, ma con centinaia, migliaia di caduti.

Improvvisamente anche da noi si profilò all'orizzonte il fantasma che temevamo, il mostro distruttore che con la sola ipotesi della sua presenza mi teneva sveglio la notte a immaginare un futuro di elemosine e pranzi alla mensa dei poveri: la Ristrutturazione Aziendale.

Una parola che sapeva di modernizzazione ed evoluzione ma che celava solo un inevitabile bagno di sangue.

Nel frattempo mi ero sposato, avevo comprato casa, messo in cantiere un figlio e non potevo certo permettermi di finire in mezzo a una strada.

Nella ditta era cambiata la dirigenza e i nuovi arrivati avevano velleità e ambizioni, forse solo la necessità di giustificare in qualche modo il loro lauto stipendio.

Di solito in queste situazioni si comincia tagliuzzando, rabberciando, svecchiando la forza lavoro nella speranza che i nuovi assunti avessero ancora quella utile fame che avevo anch'io all'inizio e che, come era nell'ordine delle cose, nel tempo si era mitigata.

Mi dettero un mese di tempo per recuperarla e dimostrarmi all'altezza della loro fiducia.

Un mese, sennò ero fuori.


Questo ci porta all'inizio della mia piccola storia.

Ero entrato dal medico pieno di buone intenzioni, con la voglia di ritrovare l'energia originaria, quella che in tutti questi anni mi aveva permesso di ottenere i migliori risultati.

Quella che avevo perso, sommerso dalla noia e dalla monotona routine.

Mi ero disperatamente aggrappato a quest'ultima possibilità.

Mi ero però scontrato con il solito muro di indifferenza, in cui percepivo la mia stessa stanchezza e un pizzico di disillusione.

L'atteggiamento del medico che avevo davanti mi stava impietosamente dimostrando che non esistevano alternative, che ormai il mondo era cambiato e che ogni mio tentativo era destinato al fallimento.

Per questo venni sommerso dalla rabbia e dalla frustrazione.

Mi alzai mentre attraverso il velo rosso che era calato davanti ai miei occhi vedevo la mano alzarsi stringendo forte la penna-tagliacarte.

Poi sorrisi, lasciai cadere la penna e allungai la mano ora vuota, per un saluto.

  • Non c'è problema, ho finito! Grazie dell'attenzione!

  • No senta, io...

Mentre uscii lasciandomi alle spalle un medico stupito che forse cominciava a pentirsi del suo atteggiamento, lo sentii, o immaginai di sentirlo, borbottare qualche vaga scusa.

Appena fuori dall'ambulatorio decisi che era l'ora giusta e mi diressi sicuro verso il ristorante più vicino.

Per oggi, forse per sempre, avevo finito.


Lo so, vi ho ho preso in giro.

Forse vi aspettavate un giallo con finale a sorpresa oppure un horror con tanto di scena splatter dove il sangue scorre e le urla si sprecano.

Invece no, nulla di tutto questo.

Io però ve lo avevo detto: questa è una piccola storia, un modo per raccontare un po' i fatti miei. Se ve lo avessi detto prima forse non sareste andati oltre le prime righe.

Così almeno ho ottenuto il risultato di farvi dare un'occhiata al mondo nel quale mi sono barcamenato per dieci anni e dove intendo continuare, se me lo permettono, fino alla pensione.

Non so se ci riuscirò, perché spesso i desideri non coincidono con le realtà.

Come ho detto il mondo, il mio mondo, sta cambiando, forse il nostro lavoro si estinguerà come hanno fatto i dinosauri; magari non con un evento violento e deflagrante, più come una malattia lenta e ostinata che tutto distrugge, basta dargliene il tempo.

Non importa, finché ci saremo proveremo a finire la giornata, a far quadrare i conti, ad assolvere i nostri doveri, a ritenersi comunque soddisfatti perché di meglio proprio non si poteva fare.

E questa rimarrà, nonostante tutto, solo una piccola storia.


Guardo le dita sporche di sugo di pomodoro, le pulisco nel tovagliolo, poi sorrido e riprendo a mangiare.