martedì 5 maggio 2020

Pasqua

by Robo

L'arrivo

Camminò per un lungo tratto sotto le chiome degli alberi. I rami più alti formavano una volta gentile sopra la sua testa e i raggi del sole filtravano qua e là, tremolanti per il vento leggero che agitava le foglie.
A un certo punto, lungo il sentiero, vide un uomo a terra. Appoggiato con la schiena a una grossa quercia, teneva le gambe distese, la bocca era aperta in un respiro pesante, e le braccia abbandonate ai lati del corpo.
Si avvicinò, poggiò il bastone a terra, si piegò di fronte al viso dell'uomo e gli fece una leggera carezza sulla fronte.
Questo aprì gli occhi, lo guardò e deglutì a fatica. "Sete", disse, "sete" ripeté.
"Desideri ancora affrontare il mondo?", chiese lui. L'uomo guardò da un lato, stette in silenzio un attimo, scosse la testa, poi disse solo: "sete".
"Va bene, dormirai fino al passaggio. Posso farti sognare i momenti più belli". L’uomo non parlò e fece un cenno di assenso col capo.
Allora lui prese la testa dell'uomo tra le sue mani e gli sussurrò qualcosa in un orecchio. Poi riprese il bastone, e si riavviò. L'uomo sprofondò nel sonno con un sorriso disegnato sulle labbra.
Camminò fino a dove il sentiero incontrava la strada per la città, prese quella via e proseguì poi, giunto nei pressi delle mura, si mise in fila con chi voleva entrare. Davanti a lui mercanti di ogni tipo premevano per superare la porta est: c'erano carrozze eleganti tirate da cavalli, così come carri agricoli scoperti tirati da buoi e anche qualche somarello stracarico guidato da un ragazzino. Le guardie raccoglievano l'obolo e smistavano le entrate; uno, in piedi e grasso, maramaldeggiava con i poveri contadini e ossequiava i ricchi venditori, l'altro, ancora più grasso, stava seduto presso un piccolo tavolo e contava i soldi raccolti. 
Quando toccò a lui il grasso in piedi lo guardò con disprezzo: "ce li hai i soldi pezzente?", poi si girò verso l’altro sorridendo. "Ho un soldo di rame", rispose lui. Allora il grasso in piedi si girò di nuovo verso il compare, gli diede di sottecchi e poi disse: "per te due soldi pezzente!". Lui pensò un attimo poi fece un sorriso, allungò un braccio, aprì la mano e mostrò sul palmo due soldi di rame. 
Il grasso in piedi glieli prese con tanta veemenza da spingergli il braccio verso terra e poi si incamminò baldanzoso verso il compare, nel mentre diceva: "vai, vai pure pezzente". E lui andò.
"Un'altra moneta in più su cui fare la cresta disse ridendo al compare" e aprì la mano per far rotolare il bottino sul tavolo. Ma non rotolò nessuna moneta, solo due sassi. Istintivamente i due uomini si girarono verso la porta ma del pezzente non vi era più traccia.

La ricerca

Seguì il corso del fiume che serpeggiava all’Interno della città. I viali del centro erano lastricatI con cura ma lui cercava posti più loschi e a un certo punto girò alla propria destra in una stretta strada che si insinuava tra i palazzi eleganti. Comminò verso sud in mezzo a alti muri di sasso finché il lastricato di travertino si fece più raro e alla fine fu sostituito completamente dalla ghiaia; più o meno in qual punto trovó ciò che cercava, una taverna. 
Entrò e, come si aspettava data l'ora presta, non incontrò avventori. L’ambiente non era illuminato visto che le candele non erano ancora state accese, vide però una persona dietro al bancone, in penombra sul fondo della sala. 
"Buon giorno a lei, signora", disse. 
"Che vuoi a quest’ora...prete? Sei un prete, vero?" rispose l'ostessa. 
"Immagino di sì", rispose lui, "un prete é la cosa più vicina a quello che sono". 
"Ma non sei un prete del tempio. Loro hanno sandali dorati con la punta verso l'alto. E hanno le tuniche di velluto. Tu invece hai una veste grigia che sembra un albergo per i pidocchi... e poi, avvicinati, fammi vedere. Ah...sei scalzo".
"Non sono un prete del tempio. Sono un prete della foresta" disse lui. 
"E allora prete della foresta, cosa vuoi?". 
"Cerco un uomo, un uomo che tutti chiamano Porcospino".
L'ostessa lo aveva quasi buttato fuori quando aveva fatto quel nome e continuò a urlargli dietro il proprio livore mentre usciva dalla taverna. Il Porcospino il mese prima aveva causato una rissa e spaccato tre tavoli e due teste. Aveva dovuto chiamare le guardie ma tanto lo tenevano una settimana dentro e poi lo ributtavano fuori. Ma lei non lo voleva più vedere e che se tornava gli avrebbe dato birra avvelenata che poi non se ne sarebbe neppure accorto visto il piscio di topo che era abituato a tracannare quel verme e continuò con il medesimo registro finché la distanza non rese incomprensibili le parole.
Tornò sui propri passi fino a raggiungere nuovamente la strada del fiume finché, spingendosi sempre più a ovest, i palazzi eleganti lasciarono posto a abitazioni meno formali, con facciate semplici. A quel punto imboccò una strada sulla destra e poi prosegui dritto che intanto il sole cominciava ad abbassarsi. 
Stava andando in una zona molto periferica, allontanandosi dal fiume fino alle mura nord, verso i quartieri più poveri e malfamati. 
La strada che stava percorrendo non aveva come copertura nemmeno la ghiaia, piuttosto una terra umida e fetida, rimescolata dai passi delle tante persone che la sera si riversavano da quelle parti. Allontanandosi dal lungofiume, dove i palazzi erano di sasso o granito, era finto per passare in mezzo a case basse, prima di mattoni cotti poi di legno, e alla fine la strada stessa era terminata sotto le mura, mozzata in una sorta di nicchia, usata come latrina tra due stamberghe. Penso un secondo, poi piegò a sinistra e, di fronte a lui, vide il sole che lo accompagnava e poi due figure in controluce, sedute ai lati della strada su due botti.
"Oooh chi abbiamo qua?" disse una donna grassoccia seminuda, "un buon cliente o un inutile pezzente?"
Dall’altra parte una ragazza più giovane e così magra da sembrare una scopa brontolò: "e dai! Non fare la solita! Non vedi che é un prete?"
La grassoccia per tutta risposta liberò i seni da una stretta fascia toracica di tessuto e prese ad agitarli "questi sono troppo volgari per te, prete? Hai almeno un qualche spiccio da spendere per lo spettacolo?" e mentre lo diceva lì sbatteva in modo che mentre uno andava su l'altro andava giù. 
La magra protestò ancora: "devi sempre fare schifo...Non é un cliente è un sant'uomo". Questo batti e risposta proseguì ancora per qualche minuto dando l'idea di seguire un copione frequente. Quando finalmente presero fiato entrambe parlò lui: "signore vi saluto. Cerco un uomo chiamato Porcospino".


Porcospino 

"Si sbatte la secca ogni tanto, a me non mi guarda neanche. Puzza così tanto che lo senti arrivare da lontano. E poi non ha mai un soldo e per meno di due soldi di rame io non la do. E se ne ha di più preferisce bere birra schifosa che spenderli con noi".
"Dove posso trovarlo signora?" 
La secca prese la parola e disse: "le ultime volte l'ho visto più avanti, in una delle locande sotto le mura. Spesso dorme all’aperto perché nei letti comuni se ci va lui gli altri scappano e i locandieri non lo vogliono". 
"Grazie", disse alla secca. Poi si girò verso la grassoccia aprì la mano destra e mostrò due soldi di rame, li mise sul palmo della donna che, istintivamente, lo chiuse. "Per lo spettacolo", le sussurrò, poi salutò e proseguì. Quando la grassoccia riaprì il pugno trovò due palline colorate: roba strana, mai vista, magari erano perle grezze, magari...
 Si girò verso la secca e si guardarono l'un l'altra poi se ne mise una in bocca per testarne la consistenza, e strabuzzò gli occhi. Le avevano raccontato che i ricchi mangiavano cose, come le chiamavano?...dolci; ma in tutta la vita non le aveva mai assaggiate. Diede la seconda pallina alla secca e poi si allontanarono: niente lavoro quella sera.
Appoggiate sulle mura del lato nord della città c'erano delle baracche di legno, dei dormitori per i più derelitti della città o per chi si recava volontariamente da quelle parti dove tutto era concesso e si ubriacava così tanto da non aver la forza di tornare indietro. Queste povere costruzioni costituivano una fila ininterrotta ed erano così malandate che pareva si sostenessero l'una con l'altra. Alcune erano rappezzate meglio delle altre e fungevano da osterie, in esse si beveva solo birra e solo di pessima qualità. Cominciò a visitarle una a una finche non trovò chi cercava. 
Dentro un locale scuro, in cui c'erano tre tavoli, il più distante dall'entrata era occupato da un uomo solo; seduto su una panca ne occupava da solo la gran parte. 
Beveva una pinta di birra dando la schiena all'entrata, mentre gli altri tavoli erano ancora vuoti.
Si avvicinò, passò oltre poi si girò e salutò: "salve signore". Nessuna risposta. 
"Signore, la stavo cercando": silenzio. "...avrei bisogno di parlarle": ancora nessun suono. Cambio tono:"cosa attendi Porcospino?". Stavolta la risposta ci fu. Il Porcospino si alzò, allungò un braccio e lo afferrò per il collo. Mentre prima il suo viso era nascosto nella penombra, una volta in piedi la testa fu illuminata da un raggio che da ovest si insinuava tra le assi malmesse dell'osteria. Il Porcospino aveva una barba lunga, sporca e impiastrata da residui di cibo e birra rappresa ma ciò che meglio rendeva il suo nome erano i capelli che formavano ciuffi irregolari sulla testa simili a grosse spine nere. 
"Attendo la guerra", disse, "oppure attendo la morte. Di altri o mia non importa" proseguì e nel mentre lo sollevò da terra. 
Si trovò in un attimo a tre piedi dal suolo e gli mancava il fiato per la morsa ma non abbastanza da impedirgli di parlare: "io so cosa desideri, Erin". Il Porcospino aumentò la stretta e piegò leggermente il braccio così che i visi dei due uomini si avvicinarono. Ormai l'aria non trovava più i polmoni tanto che non riuscì a trattenere il bastone che cadde al suolo con un rumore che face eco nel locale vuoto. Con quel poco che gli rimaneva riuscì a sollevare un braccio e protese la mano che, tremando come pesasse un quintale, arrivò a sfiorare la guancia del gigante.
Fu posato lentamente al suolo mentre l'aria ricominciava a entrare, con un gradevole freschezza, nei suoi polmoni. Il Porcospino era immobile ancora in piedi, sembrava una statua ma gli occhi ora brillavano in quel raggio di luce.
A un certo punto parlò: "cosa posso fare per te?", "ho bisogno della tua forza Erin", rispose lui e si avviò. Il Porcospino lo seguì.



La Morte bianca

Mentre tornavano verso est, il sole ormai basso allungava le loro ombre nella direzione del loro tragitto. Avevano anche ripreso il tragitto che seguiva il fiume dirigendosi verso la porta. Giunti a un centinaio di metri da quella si volsero a destra, in direzione di una zona senza abitazioni in cui si alzava una una bassa collinetta un tempo usata da discarica cittadina. Ora il fiume era diventato l’addetto alle pulizie della città ma solo a valle del Palazzo Reale dalle cui acque, fin lì ancora cristalline, veniva lambito. Dalla collinetta potevano vederlo a sud, in posizione esattamente opposta rispetto a quella dove si trovavano adesso loro. Oltre quel punto era lecito rovesciare qualunque cosa nel fiume che tanto la corrente avrebbe strascinato via tutto, anche se ogni tanto capitava che qualcosa si fermasse nei contrafforti dei ponti. Il massimo era accaduto subito dopo la guerra di qualche anno prima: aveva fatto seguito un morbo e molti cadaveri gettati in acqua si erano ammucchiati causando un terribile fetore. È il vento non sempre andava da est a ovest come la corrente. A un certo punto il re aveva vietato la pratica e definito, da allora in poi, delle "zone di sgravio" in punti più nascosti e che garantivano un deflusso sicuro.
Attesero finché il sole non si abbassò fin quasi a scomparire. Il posto era poco frequentato ma non molto distante dalla strada e la porta est era la più utilizzata della città. Quando arrivò il crepuscolo chiese a Erin di scavare in un punto tra due abeti che parevano i più vecchi tra quelli oramai cresciuti sulla collinetta. Erin non disse nulla e con le sue mani come pale prese a togliere terra finché non trovarono una piccola botola di metallo; la liberarono poi chiese a Erin di aprirla. La cosa non fu affatto facile, lo spessore del coperchio la rendeva pesantissima e rovesciarla fu un'impresa anche per il gigante. 
"Grazie amico mio", disse lui. 
Erin che non aveva più parlato fino a quel momento chiese: "quando scomparirai in quella botola il regalo che mi hai dato lo farà con te?".
"No Erin. Non lo perderai più" rispose, e prese commiato infilando i piedi in quell'entrata e poi calandovisi dentro.
Il buco dava accesso a un tunnel così basso da dover strisciare sui gomiti per procedere in avanti. Nel mentre procedeva nel buio più totale, sentiva il tintinnio delle gocce di umidità che si condensavano dalla roccia bagnata del soffitto e quando passò sotto al fiume poté avvertire chiaramente lo scorrere dell'acqua sopra la sua testa. Alla fine lo scavo terminava aprendosi sul fondo di un piccolo pozzo, privo di acqua, nel giardino del re; era dentro la seconda cinta di mura della città, quella del Palazzo Reale. 

La donna aveva la pelle bianca come neve, solo le gote tradivano un leggero rossore. Gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare cielo, i capelli chiari e i lineamenti fini. L'acqua della vasca in cui era immersa era gelida e nessuno si preoccupava di riscaldarla, tanto lei non sentiva il freddo. La porta dell’appartamento era aperta alla notte, nessun'altro avrebbe osato entrare.
La Morte bianca si guardò allo specchio e provò a sorridere: ne uscì qualcosa di macabro e innaturale perché gli angoli della bocca sembravano tenuti in quella posizione da invisibili piccole carrucole mentre il resto del viso non tradiva alcuna emozione. Non poteva mostrare ciò che non c'era. La Morte bianca non sentiva nulla: freddo, caldo, sete, fame, odori, sapori. Non provava nulla: dolore, amore, odio, biasimo, disgusto, simpatia e qualunque altro sentimento. Solo una cosa penetrava il suo involucro, la noia, e solo una cosa la rendeva sopportabile, la guerra. Solo che l’ultima guerra era finita anni prima e diventare capitano delle guardie reali non era un succedaneo minimamente sufficiente. Completamente nuda in quella vasca di acqua che non poteva darle alcun piacere decise di porre fine alla noia. Posò lo specchio, si alzò dalla vasca e si diresse a un lato della stanza in cui diverse armi da impalamento erano appese al muro. Prese uno stiletto e se lo puntò alla base della gola, dal basso verso l'alto. Mentre stava in piedi, gocciolante, con l'arma in mano sentì una voce maschile che la chiamava: "chiedo perdono mia signora", disse lui, entrando dalla porta aperta. La Morte bianca reagì in un lampo e lanciò lo stiletto per uccidere ma cambio idea all’ultimo istante e fece si che l’intruso si ritrovasse solo con un taglio lungo la guancia, d’altronde l'unico rimedio alla noia é una novità. Lui non si scompose, si inchinò e poggiò il bastone per terra. 
"Mia signora", ripetè, "ho bisogno del tuo aiuto". Lei staccò una spada affilata dal muro e si avvicinò, completamente nuda ma senza vergogna, che anche questa disposizione d'animo non era tra quelle che potesse provare. Lui sapeva di avere poco tempo prima di essere trafitto e, da quella posizione di sottomissione, allungò molto lentamente un braccio e, senza alzare lo sguardo dal suolo, giunse a sfiorare con la punta delle dita il piede di lei più vicino. La Morte bianca fu percorsa da un brivido mai provato, così forte che le fece cadere la spada dalle mani e questa rimbalzò più volte sul pavimento. Poi le labbra cominciarono a tremarle, istintivamente si accovacciò in avanti e i loro sguardi si incrociarono. E mentre veniva scossa da brividi sempre più forti cominciò a ridere e disse: "questo...questo é freddo?"

Il re

Il Palazzo Reale era una città nella città. Lambito a nord dal fiume, circondato dalla seconda cinta di mura, era in realtà un luogo aperto in cui diverse abitazioni eleganti erano immerse in giardini, gli appartamenti reali al centro, tutti gli altri intorno a raggera; sulla cima delle mura le ronde delle guardie erano continue, in particolare dal calar del sole. Altri soldati erano in postazioni fisse attorno ai palazzi e le torce disegnavano, nel buio, una spessa trama di punti di luce. Nessuno di quelli che incrociarono prestò attenzione alla sua presenza, facevano un grido di riconoscimento e si mettevano sull'attenti, salutando il capitano. 
"Fatico a credere a ciò che dici" disse lei. 
"Il re esce tutte le sere. Ormai da mesi. Aspetta che la regina si addormenti, poi si alza. Si reca nei giardini. Le guardie lo vedono spesso ma non dicono nulla, neppure a te. É il re". 
"Ma dove si reca?" chiese lei. 
"In un posto che conosce solo lui", rispose. 
Giunsero in un lato particolarmente nascosto del giardino, con siepi spesse e spinose e le superarono non senza qualche difficoltà. Lei notò del sangue rappreso su alcune spine, a dimostrazione che qualcuno percorreva quella via e si feriva nel farlo. 
"La prima volta é stata la curiosità" disse lui, "ora é altro. I rovi non lo fermano"
Dietro le siepi un vecchio albero era franato sul proprio peso. Depositandosi su di un lato aveva lasciato scoperto, sotto di se, un grosso buco in cui prima penetravano le radici, ora esposte all'aria. Il re non aveva fatto spostare l’albero che era lì da mesi e, per caso, aveva trovato delle scale di roccia nel fondo della buca.
Non era semplice, nell’oscurità, scendere in quell’antro ma una volta imboccate le scale il buco si allargava e diventava agevole. Da lì si cominciava a scendere, scendere, scendere per un tempo che sembrava infinito in quel buio tutto uguale, illuminato solo dalla torcia. Ad un certo punto le scale terminarono e si trovarono a percorrere un breve tunnel di pietra e infine una porta. 
"Cos'è questa costruzione?" chiese lei. 
"Cose più antiche della città. Cose dimenticate da tanto tempo" rispose. 
Aprirono la porta e si ritrovarono in un grande antro scavato nella roccia, così ampio che la luce della torcia faticava a raggiungere i punti più distanti che rimanevano in ombra, aumentando la percezione delle dimensioni del luogo. Si distingueva al centro una piscina circolare con un basso bordo di pietra e nel mezzo stava seduto, completamente nudo, un uomo flaccido e corpulento: il re. Un'acqua bassa e nera lo bagnava fino all’ombelico e quell'acqua emanava un fetore di cadavere e di stantio. Ma non uno stantio normale, era come aprire la porta di un posto chiuso dall'inizio del tempo.
Era la prima volta che lei sentiva qualcosa del genere. La brezza notturna del giardino le aveva lasciato l'animo quasi inebriato ma il puzzo di marcio millenario le arrivò così in profondità nel cervello da farla quasi svenire. L'ormai non più Morte bianca dissimulò e si rivolse al re: "Sire. Mio sire. Sono il vostro capitano". Il viso del re era flaccido come il suo corpo e l’espressione, che a malapena si poteva vedere, era quanto di meno adatta alla regalità: la bocca semiaperta, le palpebre pesanti e lo sguardo vuoto. Ciononostante rispose, dapprima farfugliando qualcosa poi le parole iniziarono a prendere una forma comprensibile: "chi siete? Che volete? Non siete i benvenuti nelle mie stanze", il tono cominciò a essere più fermo, "ora che l'ho trovato non me lo porterete via! Andatevene! Andatevene! ANDATEVEeeeee...". Da lì accadde qualcosa: la voce del re cominciò a divenire stridula e mentre ciò avveniva anche il corpo del re cambiava. Fu come se il suo torso molliccio gemmasse se stesso verso l'alto in un osceno parto simmetrico ripetuto più volte fino a che la creatura che era stato il re arrivò fin quasi al soffitto della volta. Nel frattempo il capo si era allargato ed ingrossato, mentre le ossa stridevano nella deformazione, fino a diventare l'estremità di un immondo verme il cui corpo bianco latteo era percorso da fremiti e mostrava, in semi trasparenza, movimenti interni di qualcosa, organi forse. Questo nuovo essere, appena venuto al mondo, ondeggiava lentamente sulla propria base nella piscina e li guardava con occhi grandi che ricordavano, anche se deformati e distorti, quelli del re e una bocca larga e arrotondata, protrusa in avanti e piena di denti conici gementi una saliva melmosa. 
Restavano del re due braccine flaccide, ora minuscole al confronto, poste tra la testa e il corpo allungato. Tremavano e si muovevano senza senso e senza tregua come fossero estranee, un rimasuglio senza importanza di qualcosa che non c’era più.
Lei provò di nuovo una sensazione che non aveva mai conosciuto prima. La paura la avvolse così completamente da cambiarle il sentire della propria carne, come se il corpo fosse altro da se ma in un modo diverso da come aveva sperimentato per tutta la sua vita fino a quella sera. Tremando riuscì a portare la mano sull'elsa della spada. "La spada non ti servirà" disse lui.


La fine

"Ora non può staccare il corpo dalla piscina, ma quando potrà farlo uscirà di qui e niente potrà fermarlo. Torneranno tempi così antichi di cui é stata perduta memoria. Tempi in cui gli uomini si nascondevano per paura di essere divorati e vedere la luce del giorno successivo era la massima aspirazione. L'acqua nera lo ha nutrito e cambiato in tutti questi mesi, ha preso la sua ambizione e l'ha trasformata in fame di distruzione, una fame che viene da prima di noi e che non potrà essere saziata", poi concluse: "ma possiamo ancora cambiare queste cose".
Le lasciò il bastone, sorrise e salutò. Poi si avviò verso la piscina finché non fu al margine di questa: "sire", disse, "non ci siamo presentati. Io vengo dal bosco e sono...". Non fece in tempo a finire la frase che il corpo da bruco si piegò in un lampo su se stesso e la bocca lo afferrò, lo risucchiò e lo ingoiò. 
La testa del verme gigante si girò verso l'alto e stette qualche secondo, ondeggiando in quella posizione, come a godere del pasto. Ben presto, però, i movimenti, da lenti e regolari si trasformarono in spasmi improvvisi che sconquassavano il verme finché, dalla base, parti un brivido netto che, percorrendo tutto il corpo, arrivò fino alla grossa testa e lì si fermò: il verme allora rimase dritto e rigido con gli occhi sbarrati.
Dopo qualche secondo riprese il suono acuto che aveva concluso le parole del re; diventava più basso e mano a mano più comprensibile nel mentre che il corpo stesso del verme subiva una regressione. I segmenti gemmati venivano ora ingoiati l'uno nell'altro, dall’altro in basso, finché non ne rimase solo uno, il corpo originario del re; e così la testa, scricchiolando, si restringeva tornando a ciò che era stata. 
Quando si ricompose del tutto una figura umana, la voce del re terminò la sillaba che prima della trasformazione non aveva finito di pronunciare, come se ciò che era successo nel frattanto fosse stato il tempo di qualcos’altro.
Il re era di nuovo seduto, completamente nudo al centro della piscina.
Dopo un lungo silenzio lei cominciò a fare qualche passo incerto, una mano tenuta alta a portare la torcia, nell'altra ancora il bastone. "Sire?" disse, "Sire?" Il re, come risvegliato da un sogno, la guardò e disse: "capitano. Cos’è questo posto? Cosa faccio qui? Ero nel mio letto e sognavo. Sognavo cose orribili! Orribili!" il discorso tracimò quasi in un pianto. 
"Ora andiamo Sire, venite verso di me. Vi riporto al palazzo, non siamo lontani e lì sarete al sicuro", disse lei. 
Quando il re la raggiunse guardò la piscina. Cercò il corpo dell'uomo con la tunica grigia ma non c'era; l'acqua bassa da nera e putrida era diventata limpida e chiara, tanto che la torcia ne illuminava facilmente il fondo in pietra. Aiutò il re a superare il bordo della piscina e lo sorresse mentre si alzava in piedi poi gli diede il bastone per aiutarsi. Lentamente ripercorsero il tragitto fino all'uscita, la luce dell'alba lì salutò all'uscita.

Il re, da quando si era ripreso, usciva spesso dal Palazzo reale. Con un piccolo crocchio di guardie si muoveva a cavallo percorrendo la strada del fiume e talvolta imboccando anche quelle laterali, fermandosi ogni tanto anche nelle taverne. Si narra che un'ostessa per poco non svenne quando lo vide entrare.
Una folla accompagnava sempre il tragitto del re e tutti notavano quanto fosse cambiato; sembrava più giovane, era magro e portava sempre con se un bastone. Si capiva che non gli serviva perché camminava senza difficoltà quando scendeva da cavallo ma, ciononostante, non se ne separava mai. 
In uno di questi percorsi si fermò a guardare il fiume. Le guardie si posero attorno a lui col capitano girato verso il gruppo di persone che andava radunandosi. Era un atteggiamento di prudenza volto a salvaguardare il re stesso e mentre lei osservava la gente che si faceva più numerosa vide, in mezzo, una persona che gli sembrava di conoscere e, sempre a cavallo, si avvicinò. "Buongiorno", disse lei rivolgendosi a un gigante che svettava sulle altre persone. 
"Buongiorno mia signora" rispose lui. 
"Mi sembra di conoscerti" riprese lei "hai combattuto in guerra sotto il mio comando?". 
"Si mia signora. É stato un onore ma sono tempi passati e spero non tornino più". 
"Ti ricordo diverso da come ti vedo ora. Come ti chiami?", chiese lei. 
"Erin mia signora. Ma avevo un nome diverso in quel tempo, io ero diverso in quel tempo", rispose. 
Lei tenne a bada il cavallo ancora per qualche istante poi disse: "piacere di averti rivisto Erin, anch'io ero diversa e spero che quei tempi non ritornino più". Lo salutò e fece per andarsene poi percepì qualcosa. Ritornò sui propri passi e chiese: "cos'é che ti ha cambiato?". 
"Ho incontrato un uomo mia signora. Un uomo scalzo con una veste grigia e un bastone"

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