L'arrivo
Camminò per un
lungo tratto sotto le chiome degli alberi. I rami più alti formavano una
volta gentile sopra la sua testa e i raggi del sole filtravano qua e
là, tremolanti per il vento leggero che agitava le foglie.
A
un certo punto, lungo il sentiero, vide un uomo a terra. Appoggiato con
la schiena a una grossa quercia, teneva le gambe distese, la bocca era
aperta in un respiro pesante, e le braccia abbandonate ai lati del
corpo.
Si avvicinò, poggiò il bastone a terra, si piegò di fronte al viso dell'uomo e gli fece una leggera carezza sulla fronte.
Questo aprì gli occhi, lo guardò e deglutì a fatica. "Sete", disse, "sete" ripeté.
"Desideri
ancora affrontare il mondo?", chiese lui. L'uomo guardò da un lato,
stette in silenzio un attimo, scosse la testa, poi disse solo: "sete".
"Va
bene, dormirai fino al passaggio. Posso farti sognare i momenti più
belli". L’uomo non parlò e fece un cenno di assenso col capo.
Allora
lui prese la testa dell'uomo tra le sue mani e gli sussurrò qualcosa in
un orecchio. Poi riprese il bastone, e si riavviò. L'uomo sprofondò nel
sonno con un sorriso disegnato sulle labbra.
Camminò fino a
dove il sentiero incontrava la strada per la città, prese quella via e
proseguì poi, giunto nei pressi delle mura, si mise in fila con chi
voleva entrare. Davanti a lui mercanti di ogni tipo premevano per
superare la porta est: c'erano carrozze eleganti tirate da cavalli, così
come carri agricoli scoperti tirati da buoi e anche qualche somarello
stracarico guidato da un ragazzino. Le guardie raccoglievano l'obolo e
smistavano le entrate; uno, in piedi e grasso, maramaldeggiava con i
poveri contadini e ossequiava i ricchi venditori, l'altro, ancora più
grasso, stava seduto presso un piccolo tavolo e contava i soldi
raccolti.
Quando toccò a lui il grasso in piedi lo guardò con
disprezzo: "ce li hai i soldi pezzente?", poi si girò verso l’altro
sorridendo. "Ho un soldo di rame", rispose lui. Allora il grasso in
piedi si girò di nuovo verso il compare, gli diede di sottecchi e poi
disse: "per te due soldi pezzente!". Lui pensò un attimo poi fece un
sorriso, allungò un braccio, aprì la mano e mostrò sul palmo due soldi
di rame.
Il grasso in piedi glieli prese con tanta veemenza
da spingergli il braccio verso terra e poi si incamminò baldanzoso verso
il compare, nel mentre diceva: "vai, vai pure pezzente". E lui andò.
"Un'altra
moneta in più su cui fare la cresta disse ridendo al compare" e aprì la
mano per far rotolare il bottino sul tavolo. Ma non rotolò nessuna
moneta, solo due sassi. Istintivamente i due uomini si girarono verso la
porta ma del pezzente non vi era più traccia.
La ricerca
Seguì
il corso del fiume che serpeggiava all’Interno della città. I viali del
centro erano lastricatI con cura ma lui cercava posti più loschi e a un
certo punto girò alla propria destra in una stretta strada che si
insinuava tra i palazzi eleganti. Comminò verso sud in mezzo a alti muri
di sasso finché il lastricato di travertino si fece più raro e alla
fine fu sostituito completamente dalla ghiaia; più o meno in qual punto
trovó ciò che cercava, una taverna.
Entrò e, come si
aspettava data l'ora presta, non incontrò avventori. L’ambiente non era
illuminato visto che le candele non erano ancora state accese, vide però
una persona dietro al bancone, in penombra sul fondo della sala.
"Buon giorno a lei, signora", disse.
"Che vuoi a quest’ora...prete? Sei un prete, vero?" rispose l'ostessa.
"Immagino di sì", rispose lui, "un prete é la cosa più vicina a quello che sono".
"Ma
non sei un prete del tempio. Loro hanno sandali dorati con la punta
verso l'alto. E hanno le tuniche di velluto. Tu invece hai una veste
grigia che sembra un albergo per i pidocchi... e poi, avvicinati, fammi
vedere. Ah...sei scalzo".
"Non sono un prete del tempio. Sono un prete della foresta" disse lui.
"E allora prete della foresta, cosa vuoi?".
"Cerco un uomo, un uomo che tutti chiamano Porcospino".
L'ostessa
lo aveva quasi buttato fuori quando aveva fatto quel nome e continuò a
urlargli dietro il proprio livore mentre usciva dalla taverna. Il
Porcospino il mese prima aveva causato una rissa e spaccato tre tavoli e
due teste. Aveva dovuto chiamare le guardie ma tanto lo tenevano una
settimana dentro e poi lo ributtavano fuori. Ma lei non lo voleva più
vedere e che se tornava gli avrebbe dato birra avvelenata che poi non se
ne sarebbe neppure accorto visto il piscio di topo che era abituato a
tracannare quel verme e continuò con il medesimo registro finché la
distanza non rese incomprensibili le parole.
Tornò sui propri
passi fino a raggiungere nuovamente la strada del fiume finché,
spingendosi sempre più a ovest, i palazzi eleganti lasciarono posto a
abitazioni meno formali, con facciate semplici. A quel punto imboccò una
strada sulla destra e poi prosegui dritto che intanto il sole
cominciava ad abbassarsi.
Stava andando in una zona molto
periferica, allontanandosi dal fiume fino alle mura nord, verso i
quartieri più poveri e malfamati.
La strada che stava
percorrendo non aveva come copertura nemmeno la ghiaia, piuttosto una
terra umida e fetida, rimescolata dai passi delle tante persone che la
sera si riversavano da quelle parti. Allontanandosi dal lungofiume, dove
i palazzi erano di sasso o granito, era finto per passare in mezzo a
case basse, prima di mattoni cotti poi di legno, e alla fine la strada
stessa era terminata sotto le mura, mozzata in una sorta di nicchia,
usata come latrina tra due stamberghe. Penso un secondo, poi piegò a
sinistra e, di fronte a lui, vide il sole che lo accompagnava e poi due
figure in controluce, sedute ai lati della strada su due botti.
"Oooh chi abbiamo qua?" disse una donna grassoccia seminuda, "un buon cliente o un inutile pezzente?"
Dall’altra
parte una ragazza più giovane e così magra da sembrare una scopa
brontolò: "e dai! Non fare la solita! Non vedi che é un prete?"
La
grassoccia per tutta risposta liberò i seni da una stretta fascia
toracica di tessuto e prese ad agitarli "questi sono troppo volgari per
te, prete? Hai almeno un qualche spiccio da spendere per lo spettacolo?"
e mentre lo diceva lì sbatteva in modo che mentre uno andava su l'altro
andava giù.
La magra protestò ancora: "devi sempre fare
schifo...Non é un cliente è un sant'uomo". Questo batti e risposta
proseguì ancora per qualche minuto dando l'idea di seguire un copione
frequente. Quando finalmente presero fiato entrambe parlò lui: "signore
vi saluto. Cerco un uomo chiamato Porcospino".
Porcospino
"Si
sbatte la secca ogni tanto, a me non mi guarda neanche. Puzza così
tanto che lo senti arrivare da lontano. E poi non ha mai un soldo e per
meno di due soldi di rame io non la do. E se ne ha di più preferisce
bere birra schifosa che spenderli con noi".
"Dove posso trovarlo signora?"
La
secca prese la parola e disse: "le ultime volte l'ho visto più avanti,
in una delle locande sotto le mura. Spesso dorme all’aperto perché nei
letti comuni se ci va lui gli altri scappano e i locandieri non lo
vogliono".
"Grazie", disse alla secca. Poi si girò verso la
grassoccia aprì la mano destra e mostrò due soldi di rame, li mise sul
palmo della donna che, istintivamente, lo chiuse. "Per lo spettacolo",
le sussurrò, poi salutò e proseguì. Quando la grassoccia riaprì il pugno
trovò due palline colorate: roba strana, mai vista, magari erano perle
grezze, magari...
Si girò verso la secca e si guardarono l'un
l'altra poi se ne mise una in bocca per testarne la consistenza, e
strabuzzò gli occhi. Le avevano raccontato che i ricchi mangiavano cose,
come le chiamavano?...dolci; ma in tutta la vita non le aveva mai
assaggiate. Diede la seconda pallina alla secca e poi si allontanarono:
niente lavoro quella sera.
Appoggiate sulle mura del lato nord
della città c'erano delle baracche di legno, dei dormitori per i più
derelitti della città o per chi si recava volontariamente da quelle
parti dove tutto era concesso e si ubriacava così tanto da non aver la
forza di tornare indietro. Queste povere costruzioni costituivano una
fila ininterrotta ed erano così malandate che pareva si sostenessero
l'una con l'altra. Alcune erano rappezzate meglio delle altre e
fungevano da osterie, in esse si beveva solo birra e solo di pessima
qualità. Cominciò a visitarle una a una finche non trovò chi cercava.
Dentro
un locale scuro, in cui c'erano tre tavoli, il più distante
dall'entrata era occupato da un uomo solo; seduto su una panca ne
occupava da solo la gran parte.
Beveva una pinta di birra dando la schiena all'entrata, mentre gli altri tavoli erano ancora vuoti.
Si avvicinò, passò oltre poi si girò e salutò: "salve signore". Nessuna risposta.
"Signore,
la stavo cercando": silenzio. "...avrei bisogno di parlarle": ancora
nessun suono. Cambio tono:"cosa attendi Porcospino?". Stavolta la
risposta ci fu. Il Porcospino si alzò, allungò un braccio e lo afferrò
per il collo. Mentre prima il suo viso era nascosto nella penombra, una
volta in piedi la testa fu illuminata da un raggio che da ovest si
insinuava tra le assi malmesse dell'osteria. Il Porcospino aveva una
barba lunga, sporca e impiastrata da residui di cibo e birra rappresa ma
ciò che meglio rendeva il suo nome erano i capelli che formavano ciuffi
irregolari sulla testa simili a grosse spine nere.
"Attendo la guerra", disse, "oppure attendo la morte. Di altri o mia non importa" proseguì e nel mentre lo sollevò da terra.
Si
trovò in un attimo a tre piedi dal suolo e gli mancava il fiato per la
morsa ma non abbastanza da impedirgli di parlare: "io so cosa desideri,
Erin". Il Porcospino aumentò la stretta e piegò leggermente il braccio
così che i visi dei due uomini si avvicinarono. Ormai l'aria non trovava
più i polmoni tanto che non riuscì a trattenere il bastone che cadde al
suolo con un rumore che face eco nel locale vuoto. Con quel poco che
gli rimaneva riuscì a sollevare un braccio e protese la mano che,
tremando come pesasse un quintale, arrivò a sfiorare la guancia del
gigante.
Fu posato lentamente al suolo mentre l'aria
ricominciava a entrare, con un gradevole freschezza, nei suoi polmoni.
Il Porcospino era immobile ancora in piedi, sembrava una statua ma gli
occhi ora brillavano in quel raggio di luce.
A un certo punto
parlò: "cosa posso fare per te?", "ho bisogno della tua forza Erin",
rispose lui e si avviò. Il Porcospino lo seguì.
La Morte bianca
Mentre
tornavano verso est, il sole ormai basso allungava le loro ombre nella
direzione del loro tragitto. Avevano anche ripreso il tragitto che
seguiva il fiume dirigendosi verso la porta. Giunti a un centinaio di
metri da quella si volsero a destra, in direzione di una zona senza
abitazioni in cui si alzava una una bassa collinetta un tempo usata da
discarica cittadina. Ora il fiume era diventato l’addetto alle pulizie
della città ma solo a valle del Palazzo Reale dalle cui acque, fin lì
ancora cristalline, veniva lambito. Dalla collinetta potevano vederlo a
sud, in posizione esattamente opposta rispetto a quella dove si
trovavano adesso loro. Oltre quel punto era lecito rovesciare qualunque
cosa nel fiume che tanto la corrente avrebbe strascinato via tutto,
anche se ogni tanto capitava che qualcosa si fermasse nei contrafforti
dei ponti. Il massimo era accaduto subito dopo la guerra di qualche anno
prima: aveva fatto seguito un morbo e molti cadaveri gettati in acqua
si erano ammucchiati causando un terribile fetore. È il vento non sempre
andava da est a ovest come la corrente. A un certo punto il re aveva
vietato la pratica e definito, da allora in poi, delle "zone di sgravio"
in punti più nascosti e che garantivano un deflusso sicuro.
Attesero
finché il sole non si abbassò fin quasi a scomparire. Il posto era poco
frequentato ma non molto distante dalla strada e la porta est era la
più utilizzata della città. Quando arrivò il crepuscolo chiese a Erin di
scavare in un punto tra due abeti che parevano i più vecchi tra quelli
oramai cresciuti sulla collinetta. Erin non disse nulla e con le sue
mani come pale prese a togliere terra finché non trovarono una piccola
botola di metallo; la liberarono poi chiese a Erin di aprirla. La cosa
non fu affatto facile, lo spessore del coperchio la rendeva pesantissima
e rovesciarla fu un'impresa anche per il gigante.
"Grazie amico mio", disse lui.
Erin
che non aveva più parlato fino a quel momento chiese: "quando
scomparirai in quella botola il regalo che mi hai dato lo farà con te?".
"No Erin. Non lo perderai più" rispose, e prese commiato infilando i piedi in quell'entrata e poi calandovisi dentro.
Il
buco dava accesso a un tunnel così basso da dover strisciare sui gomiti
per procedere in avanti. Nel mentre procedeva nel buio più totale,
sentiva il tintinnio delle gocce di umidità che si condensavano dalla
roccia bagnata del soffitto e quando passò sotto al fiume poté avvertire
chiaramente lo scorrere dell'acqua sopra la sua testa. Alla fine lo
scavo terminava aprendosi sul fondo di un piccolo pozzo, privo di acqua,
nel giardino del re; era dentro la seconda cinta di mura della città,
quella del Palazzo Reale.
La donna aveva la
pelle bianca come neve, solo le gote tradivano un leggero rossore. Gli
occhi di un azzurro così chiaro da sembrare cielo, i capelli chiari e i
lineamenti fini. L'acqua della vasca in cui era immersa era gelida e
nessuno si preoccupava di riscaldarla, tanto lei non sentiva il freddo.
La porta dell’appartamento era aperta alla notte, nessun'altro avrebbe
osato entrare.
La Morte bianca si guardò allo specchio e provò
a sorridere: ne uscì qualcosa di macabro e innaturale perché gli angoli
della bocca sembravano tenuti in quella posizione da invisibili piccole
carrucole mentre il resto del viso non tradiva alcuna emozione. Non
poteva mostrare ciò che non c'era. La Morte bianca non sentiva nulla:
freddo, caldo, sete, fame, odori, sapori. Non provava nulla: dolore,
amore, odio, biasimo, disgusto, simpatia e qualunque altro sentimento.
Solo una cosa penetrava il suo involucro, la noia, e solo una cosa la
rendeva sopportabile, la guerra. Solo che l’ultima guerra era finita
anni prima e diventare capitano delle guardie reali non era un
succedaneo minimamente sufficiente. Completamente nuda in quella vasca
di acqua che non poteva darle alcun piacere decise di porre fine alla
noia. Posò lo specchio, si alzò dalla vasca e si diresse a un lato della
stanza in cui diverse armi da impalamento erano appese al muro. Prese
uno stiletto e se lo puntò alla base della gola, dal basso verso l'alto.
Mentre stava in piedi, gocciolante, con l'arma in mano sentì una voce
maschile che la chiamava: "chiedo perdono mia signora", disse lui,
entrando dalla porta aperta. La Morte bianca reagì in un lampo e lanciò
lo stiletto per uccidere ma cambio idea all’ultimo istante e fece si che
l’intruso si ritrovasse solo con un taglio lungo la guancia, d’altronde
l'unico rimedio alla noia é una novità. Lui non si scompose, si inchinò
e poggiò il bastone per terra.
"Mia signora", ripetè, "ho
bisogno del tuo aiuto". Lei staccò una spada affilata dal muro e si
avvicinò, completamente nuda ma senza vergogna, che anche questa
disposizione d'animo non era tra quelle che potesse provare. Lui sapeva
di avere poco tempo prima di essere trafitto e, da quella posizione di
sottomissione, allungò molto lentamente un braccio e, senza alzare lo
sguardo dal suolo, giunse a sfiorare con la punta delle dita il piede di
lei più vicino. La Morte bianca fu percorsa da un brivido mai provato,
così forte che le fece cadere la spada dalle mani e questa rimbalzò più
volte sul pavimento. Poi le labbra cominciarono a tremarle,
istintivamente si accovacciò in avanti e i loro sguardi si incrociarono.
E mentre veniva scossa da brividi sempre più forti cominciò a ridere e
disse: "questo...questo é freddo?"
Il re
Il
Palazzo Reale era una città nella città. Lambito a nord dal fiume,
circondato dalla seconda cinta di mura, era in realtà un luogo aperto in
cui diverse abitazioni eleganti erano immerse in giardini, gli
appartamenti reali al centro, tutti gli altri intorno a raggera; sulla
cima delle mura le ronde delle guardie erano continue, in particolare
dal calar del sole. Altri soldati erano in postazioni fisse attorno ai
palazzi e le torce disegnavano, nel buio, una spessa trama di punti di
luce. Nessuno di quelli che incrociarono prestò attenzione alla sua
presenza, facevano un grido di riconoscimento e si mettevano
sull'attenti, salutando il capitano.
"Fatico a credere a ciò che dici" disse lei.
"Il
re esce tutte le sere. Ormai da mesi. Aspetta che la regina si
addormenti, poi si alza. Si reca nei giardini. Le guardie lo vedono
spesso ma non dicono nulla, neppure a te. É il re".
"Ma dove si reca?" chiese lei.
"In un posto che conosce solo lui", rispose.
Giunsero
in un lato particolarmente nascosto del giardino, con siepi spesse e
spinose e le superarono non senza qualche difficoltà. Lei notò del
sangue rappreso su alcune spine, a dimostrazione che qualcuno percorreva
quella via e si feriva nel farlo.
"La prima volta é stata la curiosità" disse lui, "ora é altro. I rovi non lo fermano"
Dietro
le siepi un vecchio albero era franato sul proprio peso. Depositandosi
su di un lato aveva lasciato scoperto, sotto di se, un grosso buco in
cui prima penetravano le radici, ora esposte all'aria. Il re non aveva
fatto spostare l’albero che era lì da mesi e, per caso, aveva trovato
delle scale di roccia nel fondo della buca.
Non era semplice,
nell’oscurità, scendere in quell’antro ma una volta imboccate le scale
il buco si allargava e diventava agevole. Da lì si cominciava a
scendere, scendere, scendere per un tempo che sembrava infinito in quel
buio tutto uguale, illuminato solo dalla torcia. Ad un certo punto le
scale terminarono e si trovarono a percorrere un breve tunnel di pietra e
infine una porta.
"Cos'è questa costruzione?" chiese lei.
"Cose più antiche della città. Cose dimenticate da tanto tempo" rispose.
Aprirono
la porta e si ritrovarono in un grande antro scavato nella roccia, così
ampio che la luce della torcia faticava a raggiungere i punti più
distanti che rimanevano in ombra, aumentando la percezione delle
dimensioni del luogo. Si distingueva al centro una piscina circolare con
un basso bordo di pietra e nel mezzo stava seduto, completamente nudo,
un uomo flaccido e corpulento: il re. Un'acqua bassa e nera lo bagnava
fino all’ombelico e quell'acqua emanava un fetore di cadavere e di
stantio. Ma non uno stantio normale, era come aprire la porta di un
posto chiuso dall'inizio del tempo.
Era la prima volta che lei
sentiva qualcosa del genere. La brezza notturna del giardino le aveva
lasciato l'animo quasi inebriato ma il puzzo di marcio millenario le
arrivò così in profondità nel cervello da farla quasi svenire. L'ormai
non più Morte bianca dissimulò e si rivolse al re: "Sire. Mio sire. Sono
il vostro capitano". Il viso del re era flaccido come il suo corpo e
l’espressione, che a malapena si poteva vedere, era quanto di meno
adatta alla regalità: la bocca semiaperta, le palpebre pesanti e lo
sguardo vuoto. Ciononostante rispose, dapprima farfugliando qualcosa poi
le parole iniziarono a prendere una forma comprensibile: "chi siete?
Che volete? Non siete i benvenuti nelle mie stanze", il tono cominciò a
essere più fermo, "ora che l'ho trovato non me lo porterete via!
Andatevene! Andatevene! ANDATEVEeeeee...". Da lì accadde qualcosa: la
voce del re cominciò a divenire stridula e mentre ciò avveniva anche il
corpo del re cambiava. Fu come se il suo torso molliccio gemmasse se
stesso verso l'alto in un osceno parto simmetrico ripetuto più volte
fino a che la creatura che era stato il re arrivò fin quasi al soffitto
della volta. Nel frattempo il capo si era allargato ed ingrossato,
mentre le ossa stridevano nella deformazione, fino a diventare
l'estremità di un immondo verme il cui corpo bianco latteo era percorso
da fremiti e mostrava, in semi trasparenza, movimenti interni di
qualcosa, organi forse. Questo nuovo essere, appena venuto al mondo,
ondeggiava lentamente sulla propria base nella piscina e li guardava con
occhi grandi che ricordavano, anche se deformati e distorti, quelli del
re e una bocca larga e arrotondata, protrusa in avanti e piena di denti
conici gementi una saliva melmosa.
Restavano del re due
braccine flaccide, ora minuscole al confronto, poste tra la testa e il
corpo allungato. Tremavano e si muovevano senza senso e senza tregua
come fossero estranee, un rimasuglio senza importanza di qualcosa che
non c’era più.
Lei provò di nuovo una sensazione che non aveva
mai conosciuto prima. La paura la avvolse così completamente da
cambiarle il sentire della propria carne, come se il corpo fosse altro
da se ma in un modo diverso da come aveva sperimentato per tutta la sua
vita fino a quella sera. Tremando riuscì a portare la mano sull'elsa
della spada. "La spada non ti servirà" disse lui.
La fine
"Ora
non può staccare il corpo dalla piscina, ma quando potrà farlo uscirà
di qui e niente potrà fermarlo. Torneranno tempi così antichi di cui é
stata perduta memoria. Tempi in cui gli uomini si nascondevano per paura
di essere divorati e vedere la luce del giorno successivo era la
massima aspirazione. L'acqua nera lo ha nutrito e cambiato in tutti
questi mesi, ha preso la sua ambizione e l'ha trasformata in fame di
distruzione, una fame che viene da prima di noi e che non potrà essere
saziata", poi concluse: "ma possiamo ancora cambiare queste cose".
Le
lasciò il bastone, sorrise e salutò. Poi si avviò verso la piscina
finché non fu al margine di questa: "sire", disse, "non ci siamo
presentati. Io vengo dal bosco e sono...". Non fece in tempo a finire la
frase che il corpo da bruco si piegò in un lampo su se stesso e la
bocca lo afferrò, lo risucchiò e lo ingoiò.
La testa del
verme gigante si girò verso l'alto e stette qualche secondo, ondeggiando
in quella posizione, come a godere del pasto. Ben presto, però, i
movimenti, da lenti e regolari si trasformarono in spasmi improvvisi che
sconquassavano il verme finché, dalla base, parti un brivido netto che,
percorrendo tutto il corpo, arrivò fino alla grossa testa e lì si
fermò: il verme allora rimase dritto e rigido con gli occhi sbarrati.
Dopo
qualche secondo riprese il suono acuto che aveva concluso le parole del
re; diventava più basso e mano a mano più comprensibile nel mentre che
il corpo stesso del verme subiva una regressione. I segmenti gemmati
venivano ora ingoiati l'uno nell'altro, dall’altro in basso, finché non
ne rimase solo uno, il corpo originario del re; e così la testa,
scricchiolando, si restringeva tornando a ciò che era stata.
Quando
si ricompose del tutto una figura umana, la voce del re terminò la
sillaba che prima della trasformazione non aveva finito di pronunciare,
come se ciò che era successo nel frattanto fosse stato il tempo di
qualcos’altro.
Il re era di nuovo seduto, completamente nudo al centro della piscina.
Dopo
un lungo silenzio lei cominciò a fare qualche passo incerto, una mano
tenuta alta a portare la torcia, nell'altra ancora il bastone. "Sire?"
disse, "Sire?" Il re, come risvegliato da un sogno, la guardò e disse:
"capitano. Cos’è questo posto? Cosa faccio qui? Ero nel mio letto e
sognavo. Sognavo cose orribili! Orribili!" il discorso tracimò quasi in
un pianto.
"Ora andiamo Sire, venite verso di me. Vi riporto al palazzo, non siamo lontani e lì sarete al sicuro", disse lei.
Quando
il re la raggiunse guardò la piscina. Cercò il corpo dell'uomo con la
tunica grigia ma non c'era; l'acqua bassa da nera e putrida era
diventata limpida e chiara, tanto che la torcia ne illuminava facilmente
il fondo in pietra. Aiutò il re a superare il bordo della piscina e lo
sorresse mentre si alzava in piedi poi gli diede il bastone per
aiutarsi. Lentamente ripercorsero il tragitto fino all'uscita, la luce
dell'alba lì salutò all'uscita.
Il re, da
quando si era ripreso, usciva spesso dal Palazzo reale. Con un piccolo
crocchio di guardie si muoveva a cavallo percorrendo la strada del fiume
e talvolta imboccando anche quelle laterali, fermandosi ogni tanto
anche nelle taverne. Si narra che un'ostessa per poco non svenne quando
lo vide entrare.
Una folla accompagnava sempre il tragitto del
re e tutti notavano quanto fosse cambiato; sembrava più giovane, era
magro e portava sempre con se un bastone. Si capiva che non gli serviva
perché camminava senza difficoltà quando scendeva da cavallo ma,
ciononostante, non se ne separava mai.
In uno di questi
percorsi si fermò a guardare il fiume. Le guardie si posero attorno a
lui col capitano girato verso il gruppo di persone che andava
radunandosi. Era un atteggiamento di prudenza volto a salvaguardare il
re stesso e mentre lei osservava la gente che si faceva più numerosa
vide, in mezzo, una persona che gli sembrava di conoscere e, sempre a
cavallo, si avvicinò. "Buongiorno", disse lei rivolgendosi a un gigante
che svettava sulle altre persone.
"Buongiorno mia signora" rispose lui.
"Mi sembra di conoscerti" riprese lei "hai combattuto in guerra sotto il mio comando?".
"Si mia signora. É stato un onore ma sono tempi passati e spero non tornino più".
"Ti ricordo diverso da come ti vedo ora. Come ti chiami?", chiese lei.
"Erin mia signora. Ma avevo un nome diverso in quel tempo, io ero diverso in quel tempo", rispose.
Lei
tenne a bada il cavallo ancora per qualche istante poi disse: "piacere
di averti rivisto Erin, anch'io ero diversa e spero che quei tempi non
ritornino più". Lo salutò e fece per andarsene poi percepì qualcosa.
Ritornò sui propri passi e chiese: "cos'é che ti ha cambiato?".
"Ho incontrato un uomo mia signora. Un uomo scalzo con una veste grigia e un bastone"
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