domenica 5 aprile 2020

Psicorrea virale

by Robo

Inizio
Tigro, a dispetto del nome, era sempre stato un gatto placido e tranquillo. Ma quella volta no. Lo aveva aggredito, come non lo riconoscesse più, tanto che dovette rinchiuderlo, in fretta e furia, nella camera degli ospiti lasciandogli il sacco delle crocchette tutto intero.
L'inaspettata furia felina gli aveva procurato dei graffi profondi sulla mano sinistra, ma l'incazzatura gli passò mentre si disinfettava, e che cazzo...era il suo gatto e poi di graffi ne aveva avuti tanti nella vita.
Quando si riavvicinò alla porta per chiamarlo sentì un rumore profondo, vibrante, appena percettibile. Un ringhio.
Chiuse la porta a chiave che sua figlia avrebbe aperto sicuramente e poi tornò al lavoro che già era tardi.
Mentre organizzava i file delle richieste di reagenti per il laboratorio si concesse una capatina su Facebook per vedere se c'erano cose nuove. Il circolo dei divorziati, i 2-3 amici veri, le "amiche" interessanti, il supervisore testa di cazzo, etc.
I contatti erano parecchi come l'inutilità che scorreva assieme allo scrolling ma fu colpito da una richiesta di aiuto: il gatto di un'amica era come impazzito. Supernutrito (si capiva da una foto), normalmente bonaccione, l'aveva assalita alle gambe e lei era fuggita di casa e, ora che era fuori senza il coraggio di rientrare, chiedeva disperatamente che fare. Qualcuno aveva già risposto dicendo di chiamare il veterinario, qualcun’altro propendeva per l’esercito. Ci sarebbe stato da ridere se non fosse che era praticamente la stessa cosa capitata a lui.

Questa cosa gli mise un tarlo strano e, terminato l'orario pomeridiano, si affrettò a casa. La porta della camera era chiusa e Tigro non poteva uscire né sua figlia entrare senza la chiave, ciononostante cercò di avvertirla per telefono. Niente...non rispondeva mai, benedetta ragazza.
Comunque ormai era a casa.
Porta aperta. Nessuno dentro. Chiamò due tre volte poi, muovendosi per casa, vide un foglietto di carta appoggiato al tavolo del soggiorno: tre righe scritte da sua figlia. Gli diceva che si scusava, che sapeva che avrebbero dovuto passare insieme il fine settimana ma che doveva andare da un'amica al mare. Poi diceva di non dire niente alla mamma e che sarebbe tornata domenica sera e tutto rimaneva tra loro due. Nessun numero di telefono, nessun indirizzo, benedetta ragazza.
Decise di affrontare la questione pazzia felina. Tigro era un gatto ancora giovane e non conosceva malattie che causassero comportanti simili, comunque non ne aveva mai sentito parlare. Però lui lavorava in un servizio di smistamento ordini e che ne poteva capire?
Prima di chiamare il veterinario (o l'esercito?) decise di controllare da solo
Si avvicinò alla porta chiusa e origliò: nulla. Cominciò a girare lentamente la chiave: ancora niente. Poi apri uno spiraglio e già l’immaginazione gli suggeriva che una zampa artigliata sarebbe comparsa agitandosi nella fessura. Ma non successe. Finì con l’aprire del tutto la porta e Tigro non c'era, almeno apparentemente. Chiamò due o tre volte, restando immobile presso la porta aperta, pronto a richiudersi fuori, ma nulla si mosse e nessun rumore si sentì. Poi avvertì una corrente d'aria che per poco non gli fece scivolare di mano l'uscio. Un vetro della finestra era infranto.
Si avvicinò lentamente abbandonando la presa dell'uscio e vide che i margini appuntiti dei vetri rotti erano sporcati di sangue e pelo rosso. Tigro era fuggito.
La camera serviva ormai solo come sgabuzzino e per i pasti del gatto e non c'erano i vetri doppi ma comunque non aveva mai letto o sentito che un animale piccolo come quello si potesse gettare contro un vetro per fuggire. Eppure era successo.
Chiamò al cellulare la figlia che non rispose.

Prima fase
Ne stavano parlando addirittura nei canali nazionali. La pazzia felina. In una settimana il suo caso era diventato il caso di tutti. I gatti perdevano la testa assalivano i proprietari e gli altri animali, compresi altri gatti. Ma, diceva lo speaker, era la ferocia con cui lo facevano che lasciava interdetti. Erano, diceva un esperto, attacchi guidati da desiderio di aggressione e non, per esempio, da paura. Comunque Tigro non si era più visto.
Si era preso il venerdì pomeriggio. Elena stava con la mamma e lui voleva farsi un barbaque in giardino per godere del sole primaverile. Aveva chiamato i suoi due o tre soliti amici ma uno lavorava, uno doveva stare con i familiari e un'altro non veniva se non c'era della figa e non ce n'era, c'era solo lui.
Mica gli dispiaceva fare questo rito da solo.
Porto fuori la griglia e caricò la carbonella. Poi si mise a tagliare i peperoni che erano la sua verdura preferita e tirò fuori le salsicce, ricordandosi di non forarle con la forchetta che recentemente avevano detto in tv non si doveva fare.
Accese e approntò la griglia per una cottura veloce che non era uno di quei fanatici e poi le salsicce e i peperoni ci mettevano un attimo. Dopo un po’ di tempo senti una voce alla propria sinistra. La signora Maria lo stava chiamando dal giardino accanto. In passato era stata una buona vicina di casa, sempre molto gentile e lui le aveva anche messo a posto la rete wi-fi casalinga che aveva avuto qualche problema, poi la morte del marito l'aveva mandata un po’ fuori di testa.
Si salutarono con un sorriso poi lei cominciò: "lo sa cosa ha fatto il suo gatto?". "Maria, non lo vedo da una settimana", rispose. La signora cambió espressione e le labbra si girarono verso il basso a indicare un pianto incipiente: "ha ucciso Marlin....". Restò senza parole per qualche secondo poi gli uscì: "mi dispiace tanto per Marlin, Maria, ma é sicura? Un gatto che uccide un cane é una cosa strana...". "L'HO VISTO!"; l'urlo improvviso della signora Maria lo fece sobbalzare all’indietro mentre lei comincio a piagnucolare. "Gli ha teso un agguato...non sapevo che fare...l'ha ucciso...e poi ha cominciato a mangiarlo...Marlin c'era anche quando il mio povero marito era ancora vivo...era buono...mi faceva tanta compagnia...maleDETTO GATTO...LO AMMAZZO! E AMMAZZO TE!! SCHIFOSO FIGLIO DI TROIA!!!"
Mentre terminava la frase aveva allungato le braccia per afferrarlo ma la siepe alta e spessa la respingeva e lei schiumava di una rabbia feroce. La signora Maria soffriva di attacchi d'ira dalla morte del marito, era anche andata vicino a subire una denuncia da un corriere ma si era scusata e tutto era finito lì.
Compatendola inizio a indietreggiare, senza accorgersene si trovo praticamente davanti alla porta di casa e ancora la signora Maria lo guardava come se volesse ucciderlo. Rientrò e aveva ancora il grembiule e il forchettone nella mano sinistra mentre vedeva dalla finestra Maria che usciva dal proprio cancello, entrava nel suo giardino, afferrava le salsicce e le mangiava, faticando per il calore, ma non desistendo. Le divorava con una rabbia che non aveva mai visto. I loro sguardi si incontrarono ancora attraverso la finestra e stavolta gli sembrò che Maria volesse mangiare anche lui.

Seconda fase
La televisione continuò a parlarne: i gatti stavano davvero impazzendo. Gli attacchi continuavano a crescere, in tutto il mondo. Su YouTube c'erano video di persone che fuggivano inseguite da gattini di pochi mesi oppure veri scontri tra felini che proseguivano finché uno dei due non restava esanime e il vincitore cominciava a mangiarlo. La cosa assunse nel giro di poche settimane una dimensione globale e ci furono interventi delle autorità sanitarie che invitavano a isolare i propri gatti in stanze approntate allo scopo ma ormai i buoi, o meglio i felini, erano scappati. I pronto soccorsi si riempirono di pazienti con graffi e morsi profondi e ci furono attacchi ripetuti per le strade. Anche la tv cominciò a mostrare gatti inferociti mentre inseguivano gruppi di persone che si davano alla fuga; la scena, vista in video, assumeva connotazioni comiche più che drammatiche.
I cani sembravano a posto ma gli scienziati cominciavano a parlare di malattia, di virus, e moltissime persone, prese dal dubbio e dallo spavento, presero ad abbandonarli. Lui stesso ne aveva visti a gruppi vagare per le strade e ben presto i canili giunsero al collasso con i volontari che non ce la facevano più. Ovviamente non tutti si comportavano così, la stragrande maggioranza delle persone non abbandonava il proprio cane, piuttosto lo chiudeva in una stanza per tenerlo meglio sotto controllo.
La signora Maria intanto si era scusata. Si vergognava moltissimo e non sapeva che dire, anche lei aveva visto la TV e comunque Marlin le mancava da morire e disse che lei non avrebbe mai abbandonato il suo cane in una situazione come questa e si scusava, si scusava, si scusava...
Anche la sua ex moglie aveva un cane: Podolius che chiamavano Podo. Solo quella cretina poteva chiamare così un povero cane. Podolius stava benissimo ma lei era preoccupata per la storia della pazzia degli animali domestici; più che altro per la loro figlia, anche perché Podo non era un chiuaua ma un cane corso, buonissimo per carità ma potenzialmente pericoloso. Accettò di portarselo a casa e gli fece una cuccia con coperte, vecchie e ormai inutilizzate, nella ex stanza da pranzo di Tigro.
Podo si accomodò come se quella stanza fosse sempre stata la sua e non creò problemi. Quando si erano divisi avevano spartito anche i pets ed era stato l'unico accordo raggiunto senza litigi: a lui il gatto e a quella stronza il cane.
Erano passati due anni ma il livore era ancora in piena e riuscivano ad accordarsi solo per via telematica, il meglio era via mail ma in questo caso era una cosa urgente e avevano dovuto sentirsi. La stronza era preoccupata che Podo si trasformasse in Cujo e affibiandoglielo trovò anche la scuso di privarlo della figlia per qualche fine settimana, la stronza.
Lui non pensava che il mondo fosse così dipendente dagli animali domestici.
Certo in un primo momento eran prevalse paura e ignoranza o forse meglio dire era prevalsa la paura a causa dell'ignoranza. Perché nessuno sapeva spiegare, nemmeno gli esperti, ciò che stava succedendo ai gatti e tutti temevano sinceramente che potesse succedere anche ai cani.
Poi però al dramma della paura si era associato quello della mancanza: decine di milioni di gatti dispersi e uccisi in tutto il mondo, milioni di famiglie non avevano più il loro pet preferito. Anche a lui mancava Tigro, il suo cuscinetto peloso miagolante, ma era sopraffatto dai sentimenti degli altri e così sopprimeva i propri, per non impazzire. Per lui funzionava così, lo aveva fatto per l'11 settembre, per la crisi dei mutui subprime del 2008, per il COVID-19: per sopportare le ansie altrui doveva sopprimere le proprie e diventare una sorta di vulcaniano sulla terra. La sua ex moglie lo aveva sempre accusato di essere un anaffettivo mentre non capiva che era solo una questione di sopravvivenza.

Terza fase
Nessuno trovava nulla. In un programma di approfondimento pomeridiano avevano fatto anche vedere un cervello di gatto, una roba non proprio da fascia protetta. L’esperto diceva che il cervello non mostrava alterazioni macroscopiche quindi non si capiva cosa potesse causare modifiche comportamentali così spiccate e inusuali. La diffusione urlava un patogeno che però non si trovava, né nei campioni tissutali al microscopio né esplorando con i mezzi più potenti il citoplasma delle cellule. E poi i gatti stavano impazzendo dalla Nuova Zelanda all'Italia e quindi, siccome i gatti non fanno viaggi intercontinentali, gli untori dovevamo essere noi; ma l’unto non si trovava.
Su Facebook rincontrò l'amica fuggita di casa per l'attacco del suo gatto. Era disperata perché il suo amato micio, dopo essere impazzito, era fuggito, ed era ancora più disperata perché dalla televisione aveva appreso che questa pazzia doveva per forza avergliela attaccata lei. Seguirono i soliti commenti comprensivi e i soliti commenti sarcastici.
Sta di fatto che pensare di essere gli untori dell'epidemia felina non lasciava tranquilla un mucchio di gente: o per sensi di colpa propri o, i più, per paura che da portatori si diventasse in qualche modo sensibili a quel qualcosa di sconosciuto e potenzialmente pericoloso con cui ci si accompagnava. Il tutto era peggiorato dal fatto di non saper dare un nome a questa cosa, che già avrebbe aiutato.
Si avvertiva una tensione più forte e netta in giro, lo si vedeva dall'indecisione della gente riguardo lo stare vicini o mantenere le distanza canoniche da epidemia; questo volta era diversa perché non si ammalavano le persone e infatti le autorità sanitarie non avevano emesso nessun comunicato a proposito.
I giovani sembravano esclusi da queste dinamiche: sua figlia, ad esempio, continuava a fare la vita noncurante di sempre e niente per lei era accaduto di rilevante.
Gli abbandoni di animali che avevano raggiunto all’inizio livelli mai visti, cominciavano a calare, i nuovi colpevoli eravamo noi. Ma avere in corpo qualcosa che mandava fuori di testa i gatti faceva temere molti che tale cosa mutando, potesse divenire pericolosa anche per noi. Ormai i termini mutazione e salto di specie erano stati interiorizzati dalle persone a causa delle recenti pandemie e erano frequentemente riportati nei telegiornali e negli altri strumenti di informazione
Alcuni esperti spiegarono che, data l’eventualità più probabile che fossimo noi essere umani a fungere da serbatoi animali (umani-serbatoi animali, un ossimoro per molti), allora plausibilmente, qualunque cosa fosse il patogeno, era improbabile potesse nuocerci perché non lo aveva fatto fino a quel momento.
Il salto di specie, fecero notare altri, era in effetti già avvenuto ma da noi verso i poveri gatti.
Le persone però non si accontentavano di "improbabile" e "plausibile": sono parole che lasciano uno spazio in cui la paura si attacca, mette radici e poi germoglia. Sarebbe servito un bel "impossibile" ma nessun esperto voleva usare quella parola
Infine sorsero sul web un mucchio di ipotesi alternative: era una tossina liberata dai Cinesi per distruggerci partendo dai pets (ma avrebbe avuto più senso far sbarellare i cani); era un effetto dell’inquinamento da radiofrequenze cui il cervello felino, più piccolo, era più sensibile (ma allora anche bambini e cani di piccola taglia avrebbero dovuto risentirne); era l'effetto della dieta senza carne che i vegani sempre più numerosi, imponevano ai loro gatti (si, fu detto anche questo); e tante altre. La rete diede, come al solito, il meglio di sé

Quarta fase
Il laboratorio in cui lavorava ci stava guadagnando parecchio da questa situazione (c'é sempre qualcuno che guadagna quando le cose vanno male). Era stato individuato come uno di quelli di referenza nazionale visto che si occupava spesso di analisi su sezioni di tessuto cerebrale e non si erano mai visti così tanti cervelli di gatto tutti assieme. Ma anche lì, gli dicevano, non si trovava nulla.
I biologi gli raccontavano che avevano usato tutti i microscopi possibili, dagli ottici confocali che lavorano con campioni vitali fino a quelli elettronici più recenti che costano come una Bugatti, e non si vedeva niente di strano: le cellule erano lì uguali a se stesse. Indisturbate, guardavano a loro volta gli osservatori e non tradivano alcuna alterazione.
Pur con la sua ignoranza della biologia si immaginava questi pezzetti di codice che, insinuandosi nelle cellule, instauravano il loro potere, piegando i meccanismi cellulari al nuovo corso: far impazzire un piccolo felino. Non aveva idea di come potesse succedere ma pareva che nessuno ne avesse.
Tutto cambiò una sera. Ne fu data notizia al telegiornale. Una ricercatrice, in un paese in via di sviluppo aveva osservato campioni con un vecchio microscopio a luce ultravioletta, il commentatore spiegava che da noi tali strumenti non si utilizzavano più.
Quella specifica e inusuale frequenza luminosa, somministrata in maniera diretta, aveva impressionato su una lastra una nuance porpora che si distribuiva lungo le propaggini dei neuroni di gatto...finalmente qualcosa.
Da quel momento partí una caccia globale. Avendo definito le modalità giuste la ricerca proseguì a valanga e non passò molto tempo prima che giungessero nuove evidenze...tutte color porpora. Si creò quasi un passaggio in tempo reale tra i risultati che continuamente emergevano nei centri di ricerca e il flusso di notizie sui media: "virus porpora nelle cavità nasali dei gatti!", "il virus porpora infetta le cellule olfattive e arriva al cervello!", "passa da un neurone all’altro fino al centro dell’aggressività!", "non uccide le cellule ma altera i pattern elettrici del cervello felino!". Sì ma gli uomini?
"Siamo al sicuro?", si chiedevano le persone. Dove andava a finire la roba porpora? Restava intrappolata nel cervello dei gatti? Ma non si era detto che eravamo noi a portare la malattia?
Un ricercatore fece una prova con dei grossi felini. Addormentò alcuni esemplari e mise dei campioni di tessuto cerebrale infetto a contatto con la loro mucosa, poi aspettò. Nessun disagio o manifestazioni di malattia si svilupparono nel corso delle successive settimane ma la scoperta importante che fece fu che gli animali eliminavano il patogeno. E non in piccole quantità ma in costanti flussi di aerosol e lo verificò ponendo, in anestesia, dei semplici pezzi di materiale poroso (poi analizzato) davanti alle narici e ripetendo la procedura diverse volte. La sua ipotesi, resa pubblica in un’edizione serale del telegiornale nazionale più seguito, era che succedesse la stessa cosa con noi.
Apriti cielo.
L'ormai battezzato virus porpora (anche se non si sapeva cosa fosse) era, forse, davvero dentro di noi. Forse lo respiravamo, forse lo trasmettevamo ai nostri simili per via aerea e, evidentemente, ai nostri pets e, alcuni di essi, impazzivano.
Si passò rapidamente a sezionare i cervelli dei morti sapendo cosa, dove e come cercare. La melma porpora fu trovata il 100% delle volte, nei neuroni e nelle mucose nasali. Allora si cominciò con i cervelli di giovani morti prematuramente, 100% anche lì. Allora si proseguì andando a ricercare in cadaveri di persone decedute tempo prima. Ci volle un po' e servirono leggi speciali perché per fare campionamenti statisticamente significativi toccò riesumare molta gente. Si vide che i segni del patogeno erano sempre meno presenti mano a mano che si andava a ritroso nel tempo, fino a scomparire del tutto.
Non fu facile e ci volle tempo ma i diversi paesi del mondo produssero la propria curva infettiva e in tal modo fu possibile tracciare il viaggio della porpora. Si trovarono più gradienti di contagio iniziale e sta cosa era totalmente inspiegabile, perché non poteva proprio essere: l’infezione doveva necessariamente nascere e propagarsi da un singolo punto, ma la regressione basata sulle percentuali dei cervelli "colorati" indicava, con bassa possibilità di errore, 3 siti. Non fu facile anche perché nel mondo globalizzato alcuni soggetti si spostavano in 12 ore da un continente all'altro ma alla fine i ground zero risultarono la costa nord-est degli Stati Uniti, il sud dell'Inghilterra e la provincia cinese dell'Hebei con l'adiacente municipalità di Pechino

Quinta fase
Le cartine geografiche che mostravano in TV avevano colori diversi a seconda della prevalenza della porpora nei cervelli delle persone nelle diverse parti del mondo: rosso stava per circa 100% mentre verde per minore 10%. Una bella striscia rosso fuoco ardeva in Asia, partendo dal sud est si biforcava: una propaggine verso l'India e da lì a infiammare l’Iran e il vicino oriente, l'altra attraversa la Cina e si stemperava in un arancio quasi salmone in Mongolia e Sibera per poi riprendere vigore attraversando la parte Europea della Russia per giungere in Europa. Le Americhe erano attraversate verticalmente dalla medesima fiamma rossa, che impallidiva solo sugli altipiani andini e le zone più inospitali del nord. L'Australia era un tizzone acceso, e l'Africa era rossa in testa (maghreb) e nei piedi (Sudafrica), con una distesa gialla al centro fuorché nelle metropoli che erano macchie cremisi.
Restavano altri puntini verdi qua e là, principalmente isole remote e gelide e le poche zone equatoriali con foreste ancora impenetrabili (e dove spesso non c'erano neppure persone). Nord Corea e Bielorussia non aveva fornito dati e spiccavano di un bianco latteo.
I commentatori non mancavano di ribadire che si trattava di proiezioni perché il cervello dei vivi non si poteva trapanare per farne carotaggi anche se in alcuni paesi asiatici erano già partiti con tamponi di massa sui vivi che non avevano fatto altro che mostrare che sì, avevamo tutti quella roba porpora dentro le narici e probabilmente la stavano sparando fuori in grande quantità. Fu facile dal punto di vista tecnico, bastava un cotton-fioc e una fonte di luce ultravioletta della giusta lunghezza d'onda e ormai lampadine ad hoc le vendevano tutti e tutti ne avevano una. Infatti su YouTube era pieno di video con gente da tutto il mondo che mostrava tamponi che si coloravano di porpora alla luce ultravioletta ma ovviamente la cartina teneva conto solo dei dati ufficiali.
Ci aveva quasi fatto l’abitudine a questa pazzia. Tornò a casa tardi dal laboratorio quel giorno che il lavoro non mancava e il mondo non si era mica fermato, anzi pareva che questa spada di Damocle generalizzata spingesse molti a lavorare di più mentre altri ad ammazzarsi di divertimento.
Non si era ancora fatto l’auto tampone ma aveva comprato, come tutti, il lume a ultravioletti. Dopo aver nutrito Podo decise di adeguarsi alla massa: si sedette davanti al tavolo del salotto, infilò nel naso un cotton-fioc, lo estrasse e si tirò fuori dalla tasca la lampadina. Nel mentre però si spense la luce, forse un sovraccarico, e il tampone gli cadde di mano. Rimase un attimo interdetto e senza pensarci molto su usò la luce a ultravioletti che aveva in mano per cercare sul tappeto. Vide solo porpora, il tappeto ne era quasi tutto ricoperto.
Non era solito postare video su Instagram ma quella volta lo fece: 60 secondi.
Il tappeto non lo spolverava da mesi ma la porpora, verificò, non era solo lì. In tutti i posti in cui non aveva pulito negli ultimi giorni ce n'era un po’, ma il tappeto era impressionante. Sotto gli ultravioletti brillava al buio di quella tonalità.
La risposta dei social fu logaritmica: in pochi giorni tutto il mondo stava riproducendo i suoi risultati. Si sentì quasi un precursore, si sentì quasi importante. Addirittura in America illuminarono in notturna, con dei potenti fari ultravioletti, un palazzo sportivo in cui si era appena svolta una partita importante: saltò fuori un anfiteatro porpora.

Precipizio
Era evidente che il virus porpora non era un virus come lo si intende di solito. Non si trovavano quei piccoli eleganti figli di puttana che ormai conoscevamo tutti dopo l'epidemia di coronavirus. In quel magma porpora gli scienziati distinguevano alcune componenti azotate, diversi elementi dei quali alcuni inusuali nei sistemi biologici, ma anche roba che non si capiva che fosse.
Erano passati più di sei mesi dall'inizio: la fase pazzia felina era stata seguita dalle fase di abbandono dei pets e poi da quella di timore per noi stessi che era montata sempre più e nella quale si trovavano ancora in quel momento.
Ogni giorno l'ennesima puntata del programma di approfondimento pomeridiano proponeva come unico argomento il virus porpora. Frotte di esperti elucubravano su possibili fonti primarie del contagio e possibili forme di precauzione ma la verità, e si capiva bene, era che si arrampicavano tutti sugli specchi. Una cosa così non si era proprio mai vista.
L'isteria sul web toccò un acme mai visto e, forse per la prima volta tracimò nella vita reale: ci furono interrogazioni parlamentari e scioperi. Ma per cosa? La porpora era ovunque, dentro il nostro naso, dentro il nostro cervello, sopra le superfici, non era più possibile sfuggirle e non c'era più niente da fare, si poteva solo sperare e, per chi credeva in qualche trascendenza, pregare.
Una giorno, al ritorno a casa dal turno mattutino, avvertì nell’aria uno strano rumore di fondo. Era come se migliaia di televisioni fossero accese a tutto volume, come che milioni di piccoli elfi stessero litigando tutti assieme.
Accese e vide New York impazzita. Spense subito e si chiuse in casa. 
Il giorno dopo non andò al lavoro, non accese computer e tv, non rispose al telefono e continuò così per una settimana, fino a che, non sentì bussare forte alla porta.
"Ma dove eri finito? Ma sei pazzo?" Quando vide la ex moglie, con la figlia tenuta per un braccio, e sentì le sue parole pensò per un attimo di essere impazzito davvero ma capì presto che la realtà era molto peggiore. In una settimana la pazzia stava pedissequamente riproducendo il percorso originario del virus porpora: tre focolai primari e poi le rotte aeree nel resto del mondo. La moglie gli lasciò la figlia e corse a fare altre provviste che quelle da lui accumulate nella prima fase di panico, mesi prima, le aveva consumate tutte. La figlia si mise a guardare qualcosa sullo smartphone e lui decise di aprire la porta e uscire un secondo, giusto per vedere se il mondo era come l'aveva lasciato.
Quando fu in giardino si guardò intorno e a sinistra, nel giardino della signora Maria vide arrancare un gatto malconcio dal pelo lungo e rosso. "Tigro!" gridò.
Ancora vivo dopo tutto quel tempo Tigro si arrestò e lo guardò con gli stessi occhi feroci dell’ultima volta.
La signora Maria uscì improvvisamente dalla casa, afferrò Tigro e prese a sbatterlo qua e là al suolo, poi iniziò a mangiarlo da un orecchio.
Tornò verso l'uscio e trovò la figlia ad aspettarlo: "papà" disse. Fece come uno sbadiglio ma quando ebbe la bocca bella aperta aprì gli occhi e lo guardò. Restò immobile con quella strana espressione fissata poi, a bocca sempre aperta gli si avventò contro. Cadde all’indietro nel prato con la figlia sopra che cercava di morderlo e graffiarlo ma poi gli fu sfilata da addosso. Podo l'aveva afferrata da un'estremità dei pantaloni a campana e la stava trascinando all’indietro.
Si alzò e camminando uscì dal cancello prendendo il marciapiede. In quel momento la moglie, facendo stridere le ruote, fermò l'auto di fianco a lui: "dove cazzo vai idiota? Non c'é più niente di niente, hanno preso tutto. Dov'é Elena?".
Aprì la bocca per dire qualcosa ma non gli uscì nulla. La sua bocca si aprì ancora di più fin quasi a fargli male e la scena davanti ai sui occhi cambiò colore, divenne poco a poco tutto rosso, rosso porpora...



Nessun commento:

Posta un commento