domenica 28 giugno 2020

Il viaggio di Nanòk

 by Robo
Nanòk era partito in primavera proprio perché voleva evitare il gelo. Ma sui passi montani un colpo di coda dell'inverno si poteva incontrare e a lui capitò: una delle ultime tormente lo sorprese in viaggio.
Era preparato. Gli stivali in cuoio tenevano i piedi all'asciutto nonostante il bagnato che i fiocchi umidi e tardivi depositavano a terra e il mantello di orso lo proteggeva dal freddo. Il problema era il vento. Le folate aprivano varchi nel mantello e il gelo lo colpiva nel costato come una spada. Era un uomo del nord abituato ai rigori ma si rese conto che non avrebbe potuto resistere a lungo.
"Se non trovo un riparo per la notte, non posso farcela", pensò.
Deviò allora dal centro del sentiero che rappresentava la via più diretta per superare la montagna e si spostò verso le macchie di vegetazione in cui crescevano gli abeti. Ne cercò uno grande e vecchio; sapeva come riconoscerlo perché gli alberi sofferenti hanno chiome rade e sparute che contrastano con le dimensioni del loro tronco. Trovato un candidato, spostò il mantello, estrasse la spada e, tenendola a martello, iniziò a percuotere la corteccia con l’elsa finché un suono sordo non gli indicò un vuoto nel tronco. Allora parlò ad alta voce: "vecchio, ho bisogno del tuo corpo, non avercela con me". Usando la lama vergò un colpo forte proprio in quel punto per rompere la scorza e poi allargò il buco con le mani affinché fosse sufficiente ad accoglierlo. Entrò con fatica e si accovacciò; il corpo muscoloso di Nanók dentro quel tronco cavo ci stava a malapena, ma almeno era protetto dal vento. Da sotto al mantello allungò con difficoltà un braccio fino a una sacca attaccata alla cintura, la allentò e ne estrasse un pugno di carne secca che consumò avidamente. Mise la testa tra le ginocchia e si addormentò.

Il giorno successivo superò la montagna e si trovò ai piedi di una vasta pianura che, prima di allora, non aveva mai visto con i suoi occhi ma di cui conosceva l’esistenza perché ne parlavano i mercanti che d'estate si spingevano a nord per le pellicce.
"Ecco il sud piatto", pensò.
Il sud piatto non si mostrò, fin da subito, molto benevolo con Nanòk: i corsi d’acqua che gli sbarravano la strada erano gonfi di acqua del disgelo primaverile e trovare guadi risultò difficoltoso. Ad un certo punto ne incontrò uno talmente impetuoso che fu costretto a seguirne il corso, deviando leggermente a ovest. Procedendo l'alveo del fiume si allargava e la corrente rallentava ma, anche per un buon nuotatore come lui, un tentativo di guado nell'acqua gelida sarebbe stato rischioso, così desistette e disse tra se e se: "grosso fiume del sud, per ora vinci tu. Ma troverò il modo di attraversarti".
In realtà il fiume testardo gli diede un compenso che Nanòk seppe apprezzare: cibo. Trovati i rami giusti lì affilò con il coltello e costruì rudimentali fiocine per pescare. Il pesce non é stupido e Nanòk lo sapeva, dalle sue parti si diceva: "puoi stare fermo immobile davanti al fiume per tutta la vita, il pesce non ti salterà mai tra le mani" avrebbe faticato per catturarlo.
Si mise a cercare punti un po’ rialzati vicino alla riva per vedere il passaggio dei pesci, attendendo il momento giusto per affondare una fiocina. Una volta andato a segno si gettava in acqua per raccogliere la preda, poi accendeva un fuoco per asciugarsi e cuocere il pesce. Approfittò dei sassi di fiume per affilare il pugnale di bronzo e usarlo per mantenere glabra la testa; il suo status di guerriero glielo imponeva e non si era più rasato dalla partenza. Così facendo trascorse una settimana di viaggio e Nanòk sapeva che il fiume prima o dopo si sarebbe gettato in un lago o nel mare. Il mare era da qualche parte a ovest anche se nessuno del suo popolo lo aveva mai visto, ma ciò che il suo popolo sapeva era che dal mare non poteva venire nulla di buono e infatti così fu.
Nel nord vivevano tre popoli, tra questi quello di Nanòk abitava una zona collinare a nord dei passi. Quella terra non era sempre stata la loro, l’avevano conquistata duecento anni prima migrando da sud e ora Nanòk stava facendo quel percorso al contrario. Un altro popolo era quello che abitava sulla costa, costituito da predoni biondi che in autunno risalivano il fiume con le loro grandi barche. Erano odiati perché privi di onore; razziavano i villaggi quando gli uomini erano a caccia e attaccavano anche di notte, notte che non é fatta per combattere ma per riposare. Nanòk non li aveva mai visti perché la sua terra era troppo a ovest e i fiumi troppo simili a grossi ruscelli per essere navigati ma li odiava anche solo per averne sentito dire. Una cosa che non sapeva e scoprì in quella occasione e che si spingevano molto a sud. Poi c'era un terzo popolo.
A un certo punto del percorso una staccionata sbilenca bloccò il percorso di Nanòk lungo il fiume, lui la superò mettendo i piedi in acqua e, dall’altra parte, si trovò davanti un gruppo di grossi animali mai visti. Cornuti, lo guardavano di sottecchi e tenevano la distanza. "Per gli Dei!" pensò "che razza di bestie!". Poi afferrò dei ricordi in cui i mercanti di pellicce parlavano di come gli abitanti della pianura non cacciavano gli animali ma li tenevano prigionieri con il ricatto del cibo. Stava valutando la possibilità di impalare con la spada uno di quelli più piccoli quando sentì delle grida in avvicinamento, pensò rapidamente che fare poi, non essendoci vegetazione per nascondersi, si accovacciò nell'acqua del fiume che in quel tratto era torbida tenendo a se il mantello. Fece in tempo a vedere una ragazza dalle vesti lacere che scappava mentre un uomo dai capelli e dalla barba lunghi e biondi la inseguiva ridendo e dicendo frasi in una lingua che non conosceva. Quando furono molto vicini si immerse per farli passare senza essere visto.
Ma non passarono, le urla della ragazza si erano fermate li ed erano così disperate che le sentiva anche sott’acqua. Decise di riemergere con cautela per osservare ciò che stava succedendo. Vide la ragazza a terra e l'uomo sopra di lei che rideva più forte e le bloccava le braccia. Si sollevò lentamente, lasciò il mantello e fece scorrere la spada nella fodera di cuoio, si avvicinò e quando fu alla distanza opportuna afferrò la lunga chioma bionda dell'uomo, gli sollevò la testa e con due colpi di spada gliela staccò e la gettò nel fiume. "Offrire a un nemico il vantaggio di una presa é cosa molto stupida", pensò compiaciuto.

La ragazza tremava ed era così spaventata e traumatizzata, tutta sporca di sangue, che non riusciva nemmeno a urlare; l'aspetto di Nanòk non aiutava.
Usò tutta la delicatezza di cui era capace e parlò nella lingua del sud per tranquillizzarla ma la voce gli usciva cavernosa e comprendeva che lei pensava di essere caduta dalla padella nella brace. Allora si chinó a terra così da diminuire l’impatto della sua mole e disse "racconta". Come capì qualcosa del farfugliare della ragazza disse "aiuto" e infine "vendetta": con una certa sua sorpresa fu quest'ultima parola quella che fece più effetto.
La ragazza gli raccontò che, nel corso di quella notte, degli uomini erano entrati nella loro casa. Lei era stata svegliata dagli animali e, a sua volta aveva cercato di svegliare i fratelli ma gli uomini gli erano arrivati addosso e li avevano uccisi. Poi avevano portati fuori le donne, avevano legato il padre a un palo e fatto male a lei e sua sorella. "Fatto male...", ripete mentalmente Nanòk, non era la sua lingua ma una donna del suo popolo avrebbe usato parole come quelle e poi avrebbe cercato di uccidersi o uccidere chi le aveva "fatto male".
La ragazza meritava il suo aiuto. Buttò il corpo decapitato nel fiume, coprì le tracce di sangue e si allontanarono ad attendere il calar del sole in un posto più sicuro, se i compagni del biondo lo avessero cercato non dovevano sospettare nulla.
Quando arrivò la notte uscirono dal nascondiglio e si avvicinarono alla casa. Man mano che andavano avanti sentivano le voci degli assalitori sempre più nitidamente: erano grida sguaiate alternate a risate. Più volte dovette mettere un freno alla ragazza che procedeva troppo in fretta e l'ultimo tratto lo fecero carponi. I biondi erano euforici: avevano acceso un fuoco di fronte al palo cui avevano legato il vecchio e cantavano a scuarciagola, si battevano pacche sulle spalle e tiravano sassi contro quel poveretto appeso al palo che lottava per non crollare in avanti, una donna era accucciata ai margini del gruppo, sembrava cercasse di rendersi invisibile, ma non ci riuscì a lungo. Nel corso della notte le fecero male a turno in parecchi, finché le bevande fermentate non ebbero la meglio. Tre di loro si allontanarono barcollando per raggiungere la barca nordica la cui prua era stata posta in secca più a valle nel fiume, gli altri tre erano così ubriachi che si addormentarono lì. A quel punto si mossero: fece segno alla ragazza di non far rumore poi le diede il coltello di bronzo e le spiegò con un altro gesto cosa doveva fare: tagliare loro la gola.
Il forte russare copriva i loro passi e Nanòk ne sgozzò uno rapidamente con la spada mentre gli tappava la bocca col palmo della mano, la vita sgorgò via in pochi secondi. La ragazza non doveva aver capito bene, invece, perché si mise a cavalcioni di un altro e cominciò ad affondare più e più volte il coltello ringhiando. Così facendo svegliò il terzo che fece in tempo a rialzarci solo per ricevere la punta della spada di Nanòk tra le costole; spirò subito senza emettere un rumore.
Slegarono il vecchio che si unì alle due ragazze in un singhiozzare sommesso. Era un pianto di dolore ma anche liberatorio eppure Nanòk sapeva che non era finita, il giorno dopo i biondi sarebbero tornati e li avrebbero uccisi tutti e quella gente non poteva fuggire perché tutto ciò che possedevano era lì. A breve distanza c'era la barca madre con almeno tre uomini, probabilmente di più, e quella notte era l'unica possibilità per chiudere la cosa per sempre. Muovendosi con grande circospezione e tenendo il falò come riferimento raggiunse anche lui l'imbarcazione e il flebile chiarore di quella notte gli permise di contare cinque uomini, quattro distesi sulle assi da poppa a prua, uno appoggiato all'albero della vela. Pensò che non poteva sgozzarli tutti, uno dopo l'altro, senza farsi scoprire, l'opzione migliore era un'altra e la prese: salito a bordo cominciò a menare fendenti. A due spezzò il collo che erano ancora stesi, altri due li abbatté mentre tentavano di alzarsi, mentre solo uno, il più distante riuscì a estrarre la spada ma fu sbattuto nell'acqua bassa da un calcio. Quando tentò di risalire Nanòk gli aprì il cranio con la spada.
Sorrise dopo la mattanza perché, seppure con difficoltà, pensava di poter governare la barca e con essa attraversare il grande fiume senza correre rischi. Ancor meglio! A poppa in una piccola botte c'era della carne conservata sotto sale che gli avrebbe fatto comodo. Gettò i cadaveri in acqua e tornò sui suoi passi ma non trovò nessuno di fronte al falò; fu indeciso se allontanarsi ma alla fine si coricò per la notte sul retro della casa in mezzo a un cumulo di fieno caldo e lì si addormentò con la mano sull'elsa della spada.
Il mattino dopo fu svegliato dal canto degli uccelli prima del sorgere del sole, quando la luce cominciava a illuminare il levante.
Vide il vecchio avvicinarsi con molta cautela, tenendo per il polso una delle due figlie, quella che lui aveva salvato; lei aveva lo sguardo rivolto verso terra ed era recalcitrante a seguire il padre.
"Gi-gigante", balbettò, "ci hai salvato dagli uomini del nord. Noi abbiamo poco. Ma tu scegli... se vuoi uccidiamo un vitello, oppure..." e spinse in avanti la figlia che continuava a guardare il basso. Lui si alzò, ringraziò con un cenno del capo e ripartì toccando con soddisfazione la bisaccia ora piena di cibo.

Era stato parecchio complicato raggiungere l'altra sponda. Senza poter remare e usando solo il timone non riusciva a imporre alla nave una direzione costante. Quando fu vicino alla foce ebbe la fortuna di incontrare l'alta marea che, invertendo temporaneamente la corrente del fiume, gli rese più facile indirizzare la barca verso la riva e alla fine si arenò in un terreno fangoso sull'altra sponda. Quando scese salutò il grande fiume: "Avevo detto che ti avrei attraversato". Poi alla propria destra vide il mare e fu una cosa che Nanòk non dimenticò per il resto della vita.
Aiutandosi con il sole prese a spostarsi verso sud-est, allontanandosi dalla costa e spingendosi nuovamente nell'interno. Le cose cominciarono a cambiare: i sentieri diventavano man mano più grandi e confluivano in altri ancora più grandi come fossero corsi d'acqua, inoltre gli ultimi che incontrò avevano il fondo coperto di pietre piatte i cui margini si incontravano quasi perfettamente. Sempre più spesso dovette allontanarsi dalla via per nascondersi in qualche cespuglio perché sentiva in lontananza voci di persone e, da un certo punto in avanti, decise di muoversi di notte perché sapeva che il suo aspetto era così inusuale che era meglio mostrarsi il meno possibile. Fu cosa saggia purché le strade erano calcate anche dopo il calar del sole, tanto che fu spesso costretto ad appiattirsi al suolo nella notte. Su quei sassi si sentivano da grande distanza dei rumori forti che all'inizio lo spaventarono parecchio, e che anticipavano il passaggio di gruppi di animali veloci con la sagoma simile a cervi, solo senza corna e montati da persone. Li aveva già visti, tiravano i carri dei mercanti che d'estate superavano i passi e venivano a commerciare spade e arnesi in cambio di pelli e denti di animali: si chiamavano cavalli. Inoltre ai margini della via incontrava sempre più case e spesso erano il medesimo posto dove si fermavano i cavalli e gli uomini a riposare; la cosa lo fece essere ancora più guardingo ma gli consentì di rubare del cibo, sebbene dovette accoppare più di un cane.
Un giorno all'alba trovò lungo il cammino una macchia di vegetazione piccola ma fitta e decise di riposarsi per un giorno intero che il lungo viaggio cominciava a stancarlo. Si accoccolò in mezzo alle frasche e si assopì. Dormì per tutto il tempo che il sole impiega a compiere l'arco del giorno e poi dormì anche la notte successiva; fece un sonno senza sogni simile alla morte e quando si risvegliò era di nuovo l'alba ma del giorno dopo. Pensò: "ho dormito per un attimo?". Ancora non si era fatto giorno e tutto era uguale a prima: la luce, la brezza, il canto degli uccelli; tutto tranne una cosa. Su una fronda lì vicino, illuminato dalla luce che filtrava stava appeso un lungo capello rosso. Capì in quel momento che il suo passato lo aveva seguito, non era solo.

Proseguendo verso sud Nanòk vide le grandi strade lastricate tornare a restringersi, le case ai bordi delle vie tornavano a essere rare, il calpestio dei cavalli e le voci dei viandanti non si sentivano più. Il sud piatto divenne ancora più piatto perché perse anche gli alberi, restava solo l'erba, tanta erba. Si allungava in tutte le direzioni e a Nanòk ricordò il mare che aveva conosciuto poco tempo prima, solo che qui tutto era verde. Incontrò nuovamente i grossi animali con le corna solo che stavolta non c'erano steccati; questi vagavano, apparentemente liberi, ma non erano soli. Li seguivano grossi cani bianchi, più simili a orsi per dimensioni, che gli intimavano di tenersi a distanzi con latrati che sembravano tuoni. Nanòk diede loro ascolto.
Ormai non si preoccupava più di essere visto da qualcuno perché sentiva di essere vicino alla meta, lo sentiva nelle ossa e nella carne, era una memoria profonda nel suo essere, una memoria del suo popolo. E infatti alla fine ci arrivò e le vide: la paludi del passaggio. Niente più cani e bestie cornute, l'erba affondava improvvisamente come ci fosse un confine netto.
La sua gente non era nata nel nord, ci era arrivata alla fine di un lungo viaggio. Erano partiti da terre boscose lontanissime, oltre i passi montani, oltre i regni del sud piatto, oltre il mare d'erba, oltre le paludi del passaggio. Partirono tutti: uomini, donne, vecchi e bambini; un intero popolo in marcia. Nessuno fu lasciato indietro ma moltissimi morirono durante il viaggio e solo i più forti videro la neve dei passi. Da cosa fuggissero se l'erano, apparentemente, dimenticato tutti: troppo tempo, troppe generazioni erano passate e la difficoltà di sopravvivere nelle terre fredde impegnava allo spasimo il corpo e la mente di tutti.
Lui stava facendo l'antico percorso al contrario, perché pensava non gli rimanesse altro da fare. Senza compagni, senza la sua terra, senza onore, cos’altro gli rimaneva? Le paludi del passaggio erano l'ultimo ostacolo ma anche l'unico ricordo atavico che la sua gente manteneva del viaggio e non era un ricordo positivo. Nanòk non sapeva perché: i vecchi non lo sapevano o lo tacevano. Mise lo stivale a mollo nell'acqua e trovò subito il fondo; pensò che forse non sarebbe stato tanto difficile. E così mosse il primo passo poi il secondo, il terzo e così via e l'acqua superava a malapena le caviglie. Quasi si mise a correre e ridere vedendo quanto pareva facile. Poi vide in lontananza un puntino colorato. Ancora troppo distante per capire che fosse, si avvicinò finché non divenne chiaro che era un uomo, solo che non camminava come Nanòk. No, i suoi piedi, abbandonati, tagliavano l'acqua con le dita ma l'uomo non ci affondava, ci scivolava sopra. Era completamente nudo e rideva, rideva fortissimo. Fu come se tutte le paure sopite della sua gente si fossero risvegliate tutte assieme. Nanòk si girò su se stesso e prese a correre, stavolta veramente, verso la riva delle paludi. Aveva un certo vantaggio e ci arrivò per primo ma invece di proseguire correndo si girò un attimo per vedere dove fosse quell'altro. E così gli fu addosso.
Nanòk fu spinto a terra ma riuscì comunque a estrarre la spada; schiena a terra vide l'uomo magro e emaciato che stava immobile davanti a lui fluttuando. Abituato alla carne e al ferro ma non a questa cosa che non conosceva fu preso dal terrore ma, indietreggiando, riuscì ad alzarsi e sollevò la spada. La risata profonda e costante dell'altro intanto lo stordiva, lo rallentava più quanto non facesse la paura. L'uomo che fluttuava alzò le braccia lateralmente poi, con un movimento veloce le spinse giù e quelle di Nanòk, come in uno specchio, fecero la medesima cosa. Provò a opporsi ma non servì a nulla, si ritrovò come se avesse le braccia legate al corpo da corde invisibili che non poteva spezzare. L'uomo che fluttuava, sempre ridendo, spostò allora una mano verso il basso e Nanòk si ritrovò in ginocchia poi spinse l'aria in avanti col palmo della mano e Nanòk fu di nuovo con la schiena a terra. Immobile, senza poter far nulla. L'uomo che fluttuava lentamente si avvicinò e la risata ormai rimbombava così forte nella testa di Nanòk da fargliela quasi scoppiare, poi improvvisamente si interruppe. Nanòk guardò in avanti e vide la punta di una spada che spuntava dal petto dell'uomo, poi la spada si ritirò. Questo gli diede una possibilità, si rialzò più velocemente possibile e menò un fendente al collo dell'uomo fluttuante facendogli saltare la testa che rotolò a diversi metri di distanza. Divaricato dal capo, il corpo cominciò ad agitarsi come privo di ogni controllo; braccia e gambe remavano nel vuoto mentre il torso ruotava restando però fermo, a mezz'aria, nello stesso punto. La testa, smesso di rotolare, ricominciò a ridere e Nanòk ricominciò a correre e stavolta non si girò.

Ormai senza meta Nanòk tagliò verso nord dritto per dritto, come una lama su una mappa. Così facendo attraversò posti in cui non era ancora passato e quando le persone cominciarono a notarlo non se ne preoccupo più, il destino avrebbe deciso per lui. Dopo qualche giorno di cammino esaurì le provviste e la fame lo rese ancora più spavaldo tanto che si spinse a minacciare i viandanti per ottenere cibo. Pensò che era solo questione di tempo prima di incontrare il filo di una spada: soldati, un gruppo di briganti, o la vendetta che lo inseguiva. A un certo punto dovette interrompere il suo cammino lineare e non per un ostacolo naturale o una costruzione ma perché si imbatté in una lunghissima fila di uomini. Si mise ad osservarli e fu da questi osservato ma nessuno si fermò: scorrevano davanti ai suoi occhi in una precisa direzione che Nanòk, alzando gli occhi, poté far corrispondere a dei bastioni che si scorgevano in lontananza sulla piana. C'era gente di tutti i tipi, da soldati ben armati con lunghe lance e armatura a straccioni con forcali. Quello che era chiaro e che erano tutti pronti a combattere. A un certo punto passò un uomo a cavallo, l'unico. Quando questo vide Nanòk uscì dalla fila e si avvicinò ma a breve distanza smontò dall'animale e lo salutò: "salve gigante nero del nord. Io sono Murilo, posso sapere il tuo nome?". Nanòk apprezzò molto che lo sconosciuto fosse sceso dalla cavalcatura perché un uomo non alza gli occhi per parlare con un altro uomo ma il nome, al nord, é una cosa importante e si condivide solo con gli amici e i compagni di battaglia. Rispose al saluto ma declinò di rispondere sul proprio nome e fece, a sua volta, una domanda: "dove va tutta questa gente?". L'uomo di nome Murilo si mostrò gentile: "vanno tutti alla guerra. Non sai nulla di ciò che sta per succedere?".
"No", rispose secco Nanòk.
"Allora permetti che te lo spieghi" cominciò Murilo, "ci sono due vasti regni in queste terre che stanno tra la catena montagnosa boreale e i pascoli senza alberi del sud, uno è posto a est e giunge fino al mare...sai cos'é il mare?".
Nanòk annuì e Murilo proseguì con la spiegazione: "l'altro è a ovest e giunge fino alle cave di ponente. Qui sta il problema." concluse.
Nanòk non capiva, "che problema?", chiese.
"Il problema é che dipendono l'uno dall'altro per l’approvvigionamento di certe materie prime e pur odiandosi fieramente non gli conviene giungere a una guerra aperta, al massimo si arriva a qualche scaramuccia di confine. Però, in tal modo, la tensione tra i due regni si accumula così tanto che, prima o dopo, esplode in una grossa campagna in cui si scontrano i due eserciti al completo. É già successo in passato e sta per succedere ora."
L'uomo di nome Murilo parlava difficile nella lingua del sud e Nanòk non aveva inteso tutto ma di certo aveva capito che ci sarebbe stata una grande battaglia è che era già successo in passato. "E chi ha vinto le altre volte?" chiese.
"Nessuno. I costi degli armamenti, il soldo dei mercenari, la morte di tanti giovani porta a un impoverimento tale e reciproco che per tanti anni la pace é obbligatoria e i commerci riprendono", rispose Murilo.
"Allora che fa qui tutta questa gente e tu che ci fai?" chiese Nanòk.
"Gli altri cercano denaro, uomo del nord. Io cerco la gloria" e sorrise.
Nanòk decise che morire combattendo era la cosa più nobile che gli rimaneva e si unì alla fila e a Murilo. Era chiaro che quest’ultimo era un eccezione lì nel mezzo: aveva il cavallo, vesti eleganti e colorate e un modo di fare particolare, inoltre non aveva paura di Nanòk e questo a Nanòk piacque molto.
Il viaggio durò parecchio. La fila a volte si fermava come se la sua testa avesse incontrato un ostacolo, poi lentamente ripartiva e, a poco a poco, i bastioni in lontananza si ingigantivano fino a divenire impressionanti. Mura enormi, alte come una collina stavano di fronte a Nanòk che si chiese come gli uomini potessero costruire cose del genere. La fila di persone scompariva dentro le mura, da una certa distanza ne pareva come ingoiata, più da vicino si vedeva che c'era un’apertura posta tra due imponenti blocchi più spessi del resto delle fortificazioni. Questi reggevano una porta di legno a due ante, aperta: era la porta più grande che Nanòk avesse mai visto
Una volta dentro furono fatti attendere in un vasto spiazzo poi indirizzati verso una decina di postazioni in ognuna delle quali vi era un soldato in piedi e un altro uomo seduto davanti a un tavolo di legno. Nanòk seguì Murilo e ascoltò i discorsi che fecero una volta giunti davanti all'uomo seduto: "nome!" intimò questo.
Al che Murilo rispose: "Murilo Neràli Anakalotari, signore delle terre alte di levante e successore di terzo grado al principato di..."
"Basta così", lo interruppe l'uomo seduto, "classe guerresca!"
"Arciere a cavallo o a piedi" rispose Murilo.
"Di arcieri a cavallo non ne abbiamo bisogno, di arcieri a piedi non ce ne sono mai abbastanza" disse l'uomo seduto. Poi prese una piuma d'uccello poggiata sul tavolo e ne bagnò la punta in un contenitore pieno di liquido nero e tramite la punta trasferì il nero su una pergamena che poi consegnò a Murilo.
Infine disse: "vai con questa in una delle armerie in fondo a destra e mostra la pergamena. Ti saranno fornite molte frecce. Il cavallo lo puoi portare nelle scuderie ma non ti garantisco di ritrovarlo".
Poi toccò a Nanòk.
"Nome!" Riprese l'uomo seduto senza nemmeno alzare gli occhi. Silenzio.
"Nome!" Ripetè. Silenzio. A questo punto alzò il capo e guardò chi aveva di fronte: Nanòk era impassibile.
"Prima linea", disse allora l'uomo seduto, fece quella cosa con la penna di uccello e consegnò la pergamena a Nanòk dicendo: "armerie in fondo a destra".
Nanòk aveva parole nella sua lingua per destra e sinistra, c'era la mano della spada e la mano del coltello, ma si confondeva spesso nella traduzione perché non per tutti gli uomini la mano della spada era la stessa e la sua gente usava il sole e le stelle come punti di riferimento per qualsiasi cosa. Decise quindi di proseguire con Murilo per arrivare in armeria.

L'armiere, un uomo piccolo e magro, lo guardò un attimo poi disse: "non ho armature per questo qua!".
Murilo, che aveva nel frattempo ricevuto le sue frecce, intervenne: "non vorrai mica spedirlo di fronte alla cavalleria pesante senza armatura!?"
"Ci vorrebbe un'armatura a piastre su misura, posso trovare qualcosa da mettergli su torace e schiena ma le gambe e le braccia sono troppo grosse, resteranno così" rispose l'armiere, poi disse: "la spada?".
Nanòk la estrasse e la fece vedere ma non la consegnò. Era una spada di acciaio acquistata dai mercanti e per Nanòk valeva come la vita, senza spada un uomo non é un guerriero e un guerriero con una spada di acciaio é degno di rispetto. Il popolo di Nanòk non aveva la capacità di fondere il ferro e per tanto tempo aveva combattuto con spade di bronzo contro i propri nemici, furono le spade di acciaio a fare la differenza e a regalare loro la vittoria.
"Lo vedo da qui che é sbilanciata. Magari la lega é giusta ma i pesi sono sbagliati. Riesci a usarla solo perché sei così forte, comunque tienila, io di spade ne ho solo per i nobili" concluse l'armiere. Poi gli mise addosso delle piastre di metallo collegate da funi e catene: alcune gli cadevano davanti, altre dietro nel torso. L'armiere le stabilizzò facendogli passare i cappi liberi delle funi diverse volte intorno alla vita, poi gli diede un elmo, una lunga asta di legno con la punta in metallo e un pesantissimo scudo di bronzo.
"Tienili alti tutti e due, se lo fai potresti sopravvivere alla prima carica, alla seconda ne dubito. Ma sei una cosa che non ho mai visto e forse la tua pelle scura è più dura della mia", concluse l’armiere.
Nanòk aveva intuito cosa significasse prima fila. Fu posto, come si aspettava, davanti a tutto l’esercito schierato, insieme ad altri uomini di una certa stazza come lui. Lo scudo particolarmente grande e pesante, doveva proteggerlo da quella cosa di cui tutti parlavano e che lui non aveva mai visto, pur avendo combattuto tante battaglie nella sua terra: la carica della cavalleria pesante. Non c'era stato addestramento perché non c'era stato tempo; il giorno dopo il loro arrivo erano stati schierati davanti ai bastioni ed era stata una cosa lunga, dall'alba fino a che il sole fu alto in cielo.. Erano stati messi nei posti loro assegnati partendo proprio da loro, quelli della prima linea con le picche più lunghe, poi le seconde e terze linee, poi un gran numero di soldati con scudi leggeri e lance più corte e resistenti mentre gli era stato spiegato che la sua, se ben utilizzata, avrebbe dovuto rompersi e la punta restare infilzata nel nemico. Nessuno con la spada, non serviva, gli dissero, contro la cavalleria pesante, ma lui la sua se la portò in battaglia.
Stettero lì immobili, senza acqua e senza potersi muovere per ore. Qualcuno lasciò correre i bisogni corporei, qualcuno cominciò a bestemmiare i propri dei ma nessuno si mosse, anche perché davanti alle linee passavano continuamente dei lancieri a cavallo per controllare che le linee restassero chiuse.
Nel pomeriggio, in lontananza di fronte a loro, comparve una linea grigia. A poco a poco dalla linea spuntarono teste e lance. Teste di cavalli dapprima poi anche quelle dei cavalieri divennero distinguibili, il sole le illluminava da sinistra facendole risplendere. Poi si videro innumerevoli bandiere e infine si sentirono le trombe dell'esercito nemico cui risposero quelle dietro Nanòk che erano il segnale della battaglia. Non era un modo di combattere di cui Nanòk avesse esperienza: al nord l’equivalente delle trombe erano le grida dei compagni e quando si sentivano bisognava urlare a propria volta e gettarsi sul nemico, lì invece bisognava restare fermi.
Alla fine i cavalli, pesantemente corazzati, partirono dopo un altro squillo di tromba. Il fragore che produssero all'inizio parve poca cosa ma, mano a mano che si avvicinavano il rombo cominciò a rimbalzare nel petto e nelle ossa dei soldati accanto a Nanòk. La sera prima la birra era corsa a fiumi ma ormai erano tutti sobri e la paura si faceva strada, indeboliva la presa sugli scudi e le lance. Nanòk si girò verso la seconda linea dietro di lui e disse: "appoggio la mia lancia sul tuo scudo, tu fai lo stesso con l'uomo dietro di te. Dobbiamo essere una cosa sola. Se cedi ti sbudello, se cede quello dietro di te vi sbudello tutti e due. Diglielo," poi si girò.
Se la corsa della cavalleria somigliava a un tuono prolungato l’impatto fece il rumore della saetta che ne consegue: un "krak-tang-krak". Legno contro metallo. La lancia di Nanòk si spezzò facendo il suo dovere, il suo scudo parò il colpo, due cavalli continuarono la loro corsa cadendo ai suoi lati. Si girò e dietro di lui le linee erano intatte, altrove si erano formati buchi che venivano riempiti dai soldati più leggeri. Era sopravvissuto alla prima carica.
La seconda fu peggio. Due lance colpirono il suo scudo da destra e sinistra quasi strappandoglielo di mano benché lo avesse legato al polso poi la corsa di un cavallo lo investì finendo dietro di lui e distrusse la disposizione dei compagni di schiera che aveva resistito al primo assalto. Ormai dappertutto le linee erano aperte, i soldati più leggeri non erano efficaci contro un cavallo in corsa, di lunghe lance di legno non ce n'erano più e qualche cavaliere aveva sfondato.
Sentiva grida dietro di lui.
Altro colpo di tromba e partirono le frecce, da ambo le parti. Nanòk pensò subito a Murilo che era dietro di lui. I colpi del nemico rimbalzavano contro il pesante scudo di bronzo ma fecero strage di soldati leggeri che avevano protezioni limitate. Dall'altra parte la terza carica fu resa meno coesa dal nugolo di frecce amiche ma Nanòk capì subito che, senza lancia, senza compagni dietro di sè, un terzo impatto non lo avrebbe retto. Allora fece una cosa che nessuno aveva mai fatto prima: corse in avanti, anticipando la cavalleria e quando le fu di fronte scivolò di schiena al suolo ponendo lo scudo sopra di sé. Due cavalli gli passarono sopra ma non si fece nulla. Si rialzò dietro la cavalleria. Davanti a se quasi nessuno, a parte i corpi crivellati di frecce al suolo. Pochi arcieri spaventati fuggirono quando lo videro avvicinarsi. Dietro un grosso baldacchino con una sorta di tetto in metallo trainato da una lunga fila di cavalli si avvicinava. In cima un uomo con una corona in testa e intorno dei soldati a piedi con armature dorate e spade imbracciate. "Finalmente" pensò Nanòk, e invece delle trombe stavolta si sentì il suo ruggito mentre si gettava in mezzo a quegli uomini. Usando lo scudo come ariete si fece strada nella loro formazione, poi fortunatamente questo gli si staccò da polso. Cominciò a menar fendenti da tutte le parti, sentiva carne e metallo sotto la sua spada e la cosa lo esaltava. Era in mezzo a soldati addestrati e stava ancora sfruttando la sorpresa e loro ridotta possibilità di manovra vista che erano tanti intorno a un uomo solo, sapeva però che era questione di tempo prima che avessero la meglio su di lui. Un colpo al capo gli portò via l'elmo, uno al costato ammaccò una delle piastre posticce della sua armatura e gli tolse il fiato. Finì a terra mentre un uomo di fronte a lui alzava la spada per un fendente mortale ma una freccia gli si piantò in un occhio. Altre sibilarono dietro le orecchie di Nanòk, qualcuna passava così vicina da sentir l'aria che spostava. Pensò di nuovo che c'era Murilo a coprirlo. Si rialzò e caricò ancora.
Nel frattempo erano giunti anche i lancieri leggeri che, impegnando i guerrieri dorati, gli permisero di avanzare ancora. Altri due nemici abbattuti e si trovò di fronte al baldacchino; sopra l'uomo con la corona non lo degnò di uno sguardo.
"Mi guarderai" ringhiò. Si liberò di quel poco di armatura che era rimasta e balzò sul piano più basso del baldacchino. Salì altri 2 piani dello stesso e si trovò di fronte all'uomo coronato che ancora non lo guardava. Gli piantò la spada nella pancia con una tale violenza che la sentì stridere contro la colonna vertebrale prima che punta uscisse dall'altra parte. Poi gettò il corpo al suolo.
Un suono sordo risuonò nella piana. Forse, pensò Nanòk, il rumore di un re che cade è diverso da quello degli altri uomini. Subito dopo i guerrieri dorati abbassarono le spade e si fecero trucidare, i pochi cavalieri rimasti furono disarcionati e uccisi. La battaglia era vinta.

La notte era piena di fuochi. I corpi dei nemici uccisi erano stati ammassati e, una volta recuperate armi e armature, aggiunte sterpaglie: il tutto dato alle fiamme. Attorno i vincitori ubriachi di birra e festanti e un odore di carne bruciata. Nanòk, seduto in quella calda notte nei pressi di uno di quei falò veniva continuamente disturbato da compagni d'arme che gli davano pacche, urlavano ammirazione e congratulazioni; a un certo punto decise che, al prossimo che gli avrebbe dato una pacca, gli avrebbe tagliato la mano. A un certo punto sentì una voce: "mio nerboruto amico!".
Riconobbe Murilo. "Mi chiamo Nanòk", rispose.
Murilo restò sorpreso e in silenzio.
Nanòk proseguì, "abbiamo combattuto dalla stessa parte. Le tue frecce hanno colpito i miei stessi nemici. Ora siamo fratelli, Murilo".
"Ne sono onorato, Nanòk. Io, pallido nobile arciere delle terre alte, fratello di un gigante nero del nord... festeggiamo a birra e puttane!"
"La vostra birra é scadente e non la bevo. Le puttane non mi interessano, quando hai avuto il meglio, il resto non vale più nulla", rispose Nanòk.
Murilo si sedette accanto a lui, "così mi incuriosisci. Il mio novello stato di fratello in armi mi dà diritto a saperne di più?"
"Non c'è molto da dire, sono un fuggiasco e un traditore. Un vigliacco", disse Nanòk.
"E da cosa fuggi fratello?" chiese Murilo
"Dalla vergogna di aver tradito la mia gente e da una donna", rispose Nanòk.
"E ci sei riuscito? Intendo a fuggire", chiese ancora Murilo
"Né da una né dall'altra cosa. La vergogna mi segue ovunque e la donna lo stesso" rispose Nanòk.
"Fratello cosa possono farti la vergogna e una donna?" chiese Murilo
"La vergogna mi rende acida la birra, la donna mi ucciderà".


Il giorno dopo partirono per la capitale, cento miglia a ovest. Lui, Murilo che non aveva più trovato il suo cavallo e una parte dell'esercito, quella alle dipendenza dirette del regno mentre quasi tutti i mercenari furono pagati e lasciati liberi di andare. Gli onori per Nanòk esigevano invece questo viaggio di cui avrebbe volentieri fatto a meno ma il re li attendeva e si diceva fosse ansioso di conoscere il grande guerriero del nord che da solo aveva sgominato l'esercito nemico. Nanòk non sapeva se ciò che aveva fatto avesse davvero cambiato le sorti della battaglia, anzi in realtà era convinto che avrebbero vinto ugualmente. Però li lasciò fare, anche perché Murilo godeva del ruolo di amico dell'eroe e Nanòk era contento se i suoi amici stavano bene. In quei giorni Nanòk parlò molto, molto per le sue abitudini che Murilo lo ubriacava di parole e gli diceva che avrebbero ancora combattuto insieme, che c'erano altre battaglie da inseguire e avrebbero trovato insieme la gloria. Nanòk invece gli raccontò del suo popolo che era partito dal profondo sud, oltre le paludi, e giunto fino ai passi del grande nord. E della paura dei suoi avi per i rossi che abitavano quelle terre gelide e di come, col tempo, fossero stati i rossi ad aver paura di loro. E che aspettava con ansia le battaglie non per uccidere i nemici ma per incontrare una donna dei rossi, che questi, ormai rimasti in pochi, facevano combattere le proprie femmine. E lui, invece di combattere, si appartava con lei, mentre i suoi fratelli morivano nella battaglia. E di come la vergogna lo aveva spinto ad andarsene.
Murilo era un compagno gradevole, parlava tanto come una donna ma era sincero, diceva quello che pensava anche se spesso non pensava a quello che diceva: una volta, di fronte all'ennesima esaltazione di Murilo per le proprie capacità di arciere Nanòk gli fece notare che loro, a nord, usavano l'arco solo per la caccia ma che consideravano colpire a distanza un nemico stando a distanza dalla di lui spada molto poco glorioso. Alla sorpresa di Murilo sorrise e disse: "se vuoi trafiggere un nemico usa la spada, se vuoi trafiggere un amico, usa la lingua".

"Nanòk quando incontrerai il re vedrai che ne rimarrai colpito" aveva detto Murilo. Lui non chiese altre spiegazioni ma un re lo aveva da poco passato alla spada e pensò che un altro non doveva essere poi tanto diverso. "Sempre carne e ossa e corona", pensò. Dopo qualche giorno di marce forzate giunsero di fronte a una cinta di mura, più o meno come quelle dell'avamposto di fronte al quale si era svolta la battaglia. La differenza stava tutta dentro: anziché bivacchi di soldati e costruzioni di legno per conservare armi e cibo c'erano case fatte con roccia e mattoni e tanta, tanta gente attorno. Li fecero marciare e tutti urlavano contro di loro ma non per rabbia, li acclamavano, e a Nanòk parevano tutti pazzi. Alla fine la fila dei soldati, preceduta dagli ufficiali a cavallo, giunse in un vasto spiazzo circolare: i cavalieri entrarono per primi spostandosi ai lati e permettendo al grosso del gruppo, gli uomini a piedi, di porsi al centro dello spiazzo. Di fronte a loro un masso enorme che sembrava caduto dal cielo, tanto era diverso da tutto ciò che vi era intorno. In quella roccia, a una certa altezza da terra, era stata ricavata una seduta per una persona e dei gradini per accedervi dal basso. Un trono, immaginò Nanòk.
Di lì a poco un uomo alto entrò da un lato passando attraverso dei lanceri che, ai lati di costui, formavano mano a mano un percorso attraverso il quale l'uomo raggiunse la base della grande pietra. Salì i gradini e si mise sulla seduta, dominando con lo sguardo lo spiazzo di fronte a lui.
Murilo aveva ragione. Nanòk era colpito. Il re era un rosso, uno della odiata stirpe nemica della sua gente. Aveva ancora i capelli color rame raccolti in una sorta di nodo fermato da punte di legno al centro della testa, al modo dei guerrieri di quel popolo. Quel grumo di capelli affiorava al centro della bassa corona.
"La sua pelle è bianca come la mia ma è un uomo del nord come te", gli sussurrò Murilo.
"Cosa ci fa lì?" chiese Nanòk
"Quello é il trono di pietra. Ci é salito dopo aver ucciso il re precedente e poi nessuno lo ha più spostato", rispose Murilo.
"Qui a sud tutti possono diventare re?" chiese ancora Nanòk
"Devi essere un eroe della guerra, un campione riconosciuto. E poi devi essere acclamato dall'assemblea dei cavalieri, non basta lanciare la sfida" rispose Murilo.
"É una cosa stupida", pensò Nanòk ma non lo disse. Pensò che loro, a nord, non avrebbero mai tolto il guerriero più forte dalla battaglia per farlo decidere sulle cose di tutti i giorni

Il re parlò ai soldati e alla gente festante che si raccoglieva attorno a quelli. Disse parole vuote; Nanòk faticò a comprenderle tutte ma sarebbero state vuote in qualunque lingua. Avrebbe preferito ascoltare Murilo vantarsi per un giorno intero. Almeno era sincero. Invece quello che il re diceva non era vero, neppure quando esaltava i soldati che avevano vinto. La loro vita e morte non contava nulla per il re. E si capiva benissimo. Si chiese se intorno a lui fossero tutti molto stupidi o molto furbi.

Ci fu un rompere le righe ma Nanòk fu invitato a restare in città da dei vassalli, caldamente invitato. Quella sera lo spiazzo sarebbe stato illuminato da grandi fuochi e il popolo non vi avrebbe più avuto accesso. Vi avrebbe avuto luogo una festa con un banchetto per i nobili del regno e un omaggio al grande guerriero del nord e al suo amico arcere. Murilo non stava più nella pelle.
Si persero di vista e Nanòk aspettò il tramonto muovendosi da solo in quella cosa che era la città, fatta di duri minerali, plasmata dagli uomini e senza alberi. Gli sembrò qualcosa di orribile e pensò che non sarebbe mai riuscito a vivere in un posto come quello, o forse sì, chi poteva dirlo? Camminò e si perse diverse volte ma ritrovò sempre la strada perché era abituato a orientarsi col sole e quindi conosceva sempre la direzione da seguire. Ma c'erano anche piccole strade tra gli edifici nelle quali il sole non si vedeva e da uno di questi labirinti fece fatica a trovare l'uscita. A un certo punto, girato un angolo, sentì un rumore dietro di se e mise la mano sull'elsa della spada, pronto a girarsi. Però non lo fece. Allentò la presa sull'elsa e rimase immobile. Quando sentì il freddo della lama del metallo sulla gola, distese il collo alzando la testa verso l'alto così da favorire il taglio e attese. Il coltello si ritirò, Nanòk riprese il cammino per uscire dalle vie scure verso lo spiazzo del re.

Le guardie che bloccavano gli accessi allo spiazzo lo fecero passare subito. D’altra parte non c'era nessuno come lui in quel posto, il colore della pelle lo distingueva da qualsiasi altro uomo. Lo spiazzo di fronte al trono di pietra era grande ma non conteneva tante persone in quella occasione. Qualche decina di nobili che avevano combattuto a cavallo nella battaglia di qualche giorno prima e un centinaio di serventi che approntavano forni e spiedi in cui cuocere la carne, ma Murilo non si vedeva. Era sorpreso dell’ammirazione che gli tributavano tutti perché lui era sì un forte guerriero ma non uno che si distinguesse particolarmente tra i suoi; a nord era uno dei tanti mentre lì sembrava fosse un eroe invincibile. Quei cavalieri lo salutavano chinando il capo con rispetto nelle loro armature sfarzose mentre lui era ancora a torso nuda da quando, nel corso della battaglia, si era liberato della sua rozza armatura a piastre. Forse, pensò in quel momento, non era tanto il merito della vittoria, era che aveva ucciso un re. E quella gente dava a un gesto come quello una grande importanza. Da loro se uccidevi il re, diventavi tu il re. E nessuno di loro era mai riuscito a fare una cosa del genere anzi, come gli aveva spiegato Murilo, il rosso del nord aveva ucciso tutti quelli che avevano provato a sfidarlo.
Al tramonto vi fu l'entrata del re, sempre con i lanceri che seguivano il percorso del loro sovrano costruendo attorno a lui una via con i propri corpi. Il re poi salì i gradini di pietra, si sedette e poi alzò un braccio, attese l'esatto momento il cui il sole scomparve sotto l’orizzonte e lo abbassò. I nobili allora sfoderarono tutti assieme le loro spade e tenendole verso il cielo lo salutarono dopodiché si accesero i fuochi per il banchetto.
Nanòk mangiò carni tenerissime per i suoi canoni. Pensò che non potevano essere di animali, forse erano bambini tanto erano dolci. Lo chiese anche a un cavaliere che, interpretando la domanda come fosse scherzosa, proruppe in una fragorosa risata e così fecero altri suoi pari quando il cavaliere lo raccontò loro. Ma col passar del tempo Nanòk divenne sempre più nervoso perché si sentiva osservato e non da uno qualsiasi: si sentiva osservato dal re.
Questo era stato per ore immobile, seduto in alto nel trono di pietra ma gli alti bracieri accesi per la notte ne illuminavano il viso. Stava lì, mentre i suoi generali mangiavano e ridevano, con un espressione cupa e guardava Nanòk. A un certo punto, riempita la pancia alla sua massima capacità e visto che Murilo non era evidentemente in quel luogo Nanòk fece per andarsene e si allontanò dalle braci per avviarsi verso una delle vie di uscita guardate dai soldati. Ma proprio in quel momento il re si alzò e urlò come un ruggito il suo nome: "Nanòk!"

I cavalieri avevano smesso di gozzovigliare e si erano ammutoliti. Il re scese lentamente le scale e si diresse verso Nanòk, seguito dalla sua personale corte di lanceri. Il re si avvicinò e ripete: "Nanòk... sorpreso? Il tuo nome, il tuo prezioso nome pronunciato da un nemico. So che è molto spiacevole". Il re si avvicinò ancora e così fecero i lanceri che seguivano ogni suo passo, ora era quasi a portata di spada ma c'era una selva di picche a proteggerlo. Nanòk pensò che era come un grande istrice e che il re era la testa di questo istrice e lui non poteva arrivare alla testa, non per il momento.
Il re quasi sussurrò: "il mio nome non lo sa nessuno qua. Non ho amici con cui condividerlo, come hai fatto tu", poi sorrise vedendo l’espressione di Nanòk.
"No", proseguì, "il tuo improbabile compagno non ha detto nulla", poi batté le mani e due serventi si avvicinarono ognuno con un piccolo recipiente, li posarono ai piedi del re per poi ritirarsi.
Il re si chinò e tirò su una testa mozzata dal recipiente di destra, era quella di Murilo. "É morto piuttosto che dire il tuo nome. Sorprendente. Non mi pareva il tipo. Invece sì è dimostrato coraggioso al costo della vita. Sai scegliere le tue amicizie". La mano di Nanòk si diresse all'elsa e il re lo notò e sorrise di nuovo.
"Non ti chiedi come faccio a sapere il tuo nome?" disse e nel mentre si avvicinò al secondo recipiente da cui estrasse una testa mozzata, stavolta di donna. La sollevò per il nodo di capelli rossi posto in cima alla testa, la medesima disposizione della chioma del re. Nanòk strinse l'elsa mentre il re sembrava aspettare la sua mossa, circondato da tutti i suoi lanceri.
Ma Nanòk si fermò. Lasciò la presa sulla spada, girò le spalle al re e si rivolse ad alta voce al consesso di cavalieri che erano restati in silenzio fino a quel momento: "chiedo la sfida!" gridò. Ci fu un attimo di silenzio poi alcune voci d'approvazione si levarono poi altre finché fu tutto un acclamare all'unisono, allora Nanòk si girò di nuovo verso il re.
"Sei furbo pellenera. Io ero come te, un fuggiasco pieno di vergogna e senza onore" disse il re a denti stretti, "la mia vergogna mi ha portato un regno".
Nanòk gli rispose per la prima volta: "per riavere il mio onore io darei un regno".

Il re tentennava. Camminava avanti e indietro di fronte a Nanòk, il suo andirivieni era accompagnato dalle picche che si spostavano seguendolo con un minimo ritardo e disegnando una sorta di onda di punte metalliche.
Poi si fermò è cominciò a parlare: "essia!" gridò, "la sfida è accettata! Il re combatterà per il trono di pietra come tradizione comanda e come onore e valore impongono!"
Nanòk capì subito che queste parole erano per i cavalieri, poi arrivarono, dette a bassa voce, quelle per lui: "pellenera, tu sei giovane e arrabbiato. Io vecchio, con la pancia piena di piaceri e le palle svuotate. Non durerei in un duello a spada e coltello. Quindi se vuoi il duello getta il pugnale di bronzo".
Nanòk tolse il coltello dalla fondina e lo lasciò cadere, allora il re si fece portare uno scudo tondo di metallo leggero e un un'ascia con un contrappeso alla base del manico. Era chiaro che il re voleva i suoi vantaggi: Nanòk aveva combattuto diverse volte contro i rossi al nord e gli scudi non erano contemplati.
Il re fu il primo a colpire, senza preavviso. Il peso dell'ascia costrinse Nanòk a mettere anche la seconda mano sull'elsa per sostenerne i colpi e questo gli tolse mobilità, le sue risposte invece si infrangevano sullo scudo; era un tipo di scontro cui non era abituato. A forza di menar fendenti e di parare cominciò a stancarsi e il re se ne accorse e aumento il ritmo dello scontro finché riuscì a urtare Nanòk con lo scudo e farlo finire a terra. Il re alzò la braccia in segno di trionfo e si levò un applauso fintamente entusiasta da parte dei cavalieri.
Nanòk approfittò di quella pausa per rimettersi in piedi e pensò che sprecare l’occasione di finire un nemico è una cosa così stupida che al nord nessuno l'avrebbe mai fatta. Sì, era un tipo di combattimento cui non era avvezzo e il re lo aveva volutamente posto in una condizione di inferiorità, ma non aveva neppure mai affrontato prima una carica di cavalleria, eppure era sopravvissuto. Cominciò a colpire di meno e a spostarsi di più, soprattutto dal lato dello scudo; cominciò a affondare di più la spada piuttosto che usare dei fendenti; cominciò anche a fintare e indurre il re a alzare lo scudo perdendo campo visivo; stavolta fu il re che cominciò a stancarsi. Durante una di queste mosse riuscì ad avvicinarsi tanto da poter spingere con forza sullo scudo facendo barcollare e poi cadere il re. Nanòk non sprecò la sua occasione: fu subito addosso al re e lo colpì alla fronte, spostandogli la corona e aprendo un fiume di sangue che colò sugli occhi, poi lo prese e lo girò pancia a terra, lo afferrò per il nodo di capelli rossi e gli tirò su la testa mentre con un ginocchio lo bloccava al suolo.
"Sai rosso. La verità é che a me, del tuo regno, non importa nulla" gli sussurrò all'orecchio. Poi si guardò intorno e vide, lì vicino, il coltello di bronzo che aveva lasciato cadere prima. Mollò la spada, riprese il coltello e lo infilò da destra nel collo tirato verso l'alto: "per Murilo" pensò, lo affondò di nuovo: "per la mia donna" pensò, infine sollevò la mano in alto per prendere slancio e piantò il coltello nella nuca del re. Lo fece con tale forza che sentì lo scrocchiare dell'osso del collo che si rompeva sotto il suo colpo: "per il mio popolo" urlò nella propria testa.

Si alzò mentre sul viso gli colava sangue non suo. Le grida dei cavalieri gli rimbombavano in testa e non le capiva bene ma, poco a poco, le voci nelle sue orecchie si schiarirono e comprese: "re! re! re! re! re! re! re!". Era scosso e quasi meccanicamente raccolse la leggera corona sporca di sangue dal suolo. Quasi spinto dalla forza di quelle grida entusiaste cominciò a salire i gradini che portavano al trono e, giunto in cima, vi si sedette. Si mise in testa la corona e pensò che, dopo tutto, avrebbe potuto vivere in quel luogo. "Re Nanòk, il viaggio è finito".



Appendice. Il viaggio della rossa

"Vigliacco! Vigliacco!" gridava mentre seguiva le orme sulla neve, "ti ritroverò e ti strapperò il cuore dal petto e berrò il tuo sangue amaro di traditore". Ringraziò l'ultima neve che le aveva consentito di seguire le tracce. Riuscì anche a vedere dove lui aveva passato la notte: in un grosso vecchio tronco cavo. Doveva sbrigarsi però, la primavera avanzava, non le le avrebbe più dato l'aiuto della neve. Superare i passi era stato semplice, la tempesta del giorno prima aveva lasciato il posto al sole e, protetta del mantello, non aveva sofferto il freddo. La rabbia poi la spingeva, le dava energia, un'impulso simile a quello che provava in battaglia, ma sapeva che non sarebbe stato facile.
Arrivò al sud basso, vide la piana che si stendeva senza fine ed ebbe l'unico tentennamento di tutto il suo inseguimento, perché oltre quel confine geografico non aveva idea di cosa ci fosse. Sì, storie, dicerie ma potevano essere tutte false o inventate da uomini che cercavano attenzione.
Le avevano parlato di costruzioni gigantesche e di eserciti così grandi e fitti da coprire le terre come fanno le foglie in autunno. Ma la realtà era che non sapeva cosa aspettarsi. Fu solo un momento che non poteva attardarsi.

Trovò orme sulla riva di un fiume impetuoso, in luoghi dove il passaggio di persone era evidentemente raro. Potevano essere di chiunque ma il cuore le diceva che erano del traditore, del vigliacco che era fuggito. Le seguì e s’imbatté in tracce di fuochi accesi, di giacigli fatti con erba e foglie, resti di pasti. Tutto indicava un solo uomo, doveva essere lui. Valutò in circa due giorni il suo ritardo, basandosi sull'aspetto delle orme nella vegetazione. Pensò anche di poterlo raggiungere ma aveva bisogno di mangiare e dormire e in quella zona era pieno di uccelli di fiume che potevano essere cacciati con l'arco. Così perse tempo, comunque fiduciosa che lo avrebbe, prima o dopo, raggiunto.
Proseguì lungo il fiume che diventava, con suo disappunto, sempre più largo e, a un certo punto, incontrò una staccionata che tagliava il lungofiume e che la obbligò a piegare verso l'interno seguendone il perimetro. Dentro quello steccato camminavano placidamente grandi animali cornuti che mai aveva visto prima. Alla fine lo steccato la portò a una abitazione fatta di sassi e con tetto, nei pressi della quale un vecchio rigirava un grosso mucchio di erba secca. Come la vide, il vecchio cominciò a urlare parole in una lingua che lei non conosceva e le si parò contro con un bastone munito di due punte. Fu facile deviare quell'arma improvvisata e aprire, con un fendente, il collo del vecchio. Subito dopo comparvero due ragazze e una di esse si lanciò contro di lei urlando con in mano una piccola accetta, solo per finire impalata a morte; lasciò l'altra lì a piangere e proseguì.

Arrivò fino al mare e fu una vista che non avrebbe mai dimenticato per il resto della vita. Intanto però non riusciva a passare il fiume e il suo inseguimento era sull'orlo di fallire. Mentre scrutava la foce alla propria sinistra vide con la coda dell'occhio una figura rivolta verso il mare. Da dietro si vedeva chiaramente che era una vecchia seduta; capelli bianchi e ondulati, con ancora qualche sfumatura ramata, le scendevano sulla schiena lasciando visibili le spalle scarne. Era completamente nuda e parlò nella lingua della sua gente: "se cerchi un transito torna indietro e non abbandonare la riva del fiume. Troverai un'ansa in cui il fiume raccoglie le cosa perse. Lì un grosso tronco ti aspetta. Dovrai vincere la paura che noi abbiamo dell'acqua se vogliamo avere vendetta".
La voce arrivava con un'eco come rimbalzasse su un'invisibile ostacolo davanti alla vecchia, ma di fronte a quella non vi era nulla, solo la vastità del mare.
Aveva sentito di streghe che comparivano dal nulla nei boschi e, pur non avendone mai vista una, non indugiò oltre in quel luogo ma mentre seguiva il consiglio della vecchia si chiese: "noi? Vogliamo?".
Trovò presto l'ansa del fiume in cui la corrente depositava le cose, trovò anche il tronco ma dovette spostare diversi cadaveri di predoni biondi del nord, tra i quali uno senza testa. Appesa al tronco con le braccia e battendo i piedi riuscì ad attraversare il fiume ma arrivò stremata e forse non sarebbe arrivata affatto non fosse stata per l'alta marea che, invertendo temporaneamente la corrente, la aiutò a raggiungere l'altra riva.
"In che direzione sarà andato?" pensò; c'era come una traccia da seguire dentro la propria testa e si concentrò su quella. Non si poneva molto il problema di cosa fosse: l'amore di un tempo ora si era trasformato in un risentimento che la pervadeva. Lo sentiva nella bocca, lo sentiva sotto le unghie e la guidava verso di lui. Così decise di proseguire verso sud est.
Incontrò sempre più persone che la guardavano strano e il motivo le fu presto chiaro: la sua prestanza e e sue vesti non erano usuali per le donne di quelle parti. Fu spinta allora a viaggiare di notte per non dare troppo nell'occhio e immaginò che il traditore vigliacco avesse dovuto fare lo stesso visto il suo aspetto eccezionale per chi non fosse avvezzo al colore della sua pelle.
Le sue intuizioni furono ripagate. Un giorno, poco dopo l'alba, seguendo tracce fresche di un passaggio furtivo e notturno lo trovò che dormiva protetto dalle fronde di una piccola e fitta macchia. Ce lo aveva davanti inerme, come un bambino. Era quello che aveva desiderata dalla partenza e pensò a come ucciderlo: svegliarlo o sgozzarlo nel sonno? Piantargli una spada nel cuore o strappargli il membro e lasciarlo morire per dissanguamento? Alla fine decise di non fare nulla; liberò i capelli trattenuti nel nodo e ne strappò uno che lasciò appeso a una frasca di fronte al viso di lui.

Seguirlo in quella vasta piana erbosa era complicato. Non c'erano ripari e lui aveva messo da parte le precauzioni e si muoveva di giorno. Inoltre c'erano quei grossi cani bianchi che avvertivano la presenza di qualcuno da lontano e lei non voleva fungessero da allarme per lui, quindi fu costretta a allungare il cammino per stare loro sottovento. Così facendo rischiò di arrivare troppo tardi.
Mentre era ancora distante cominciò a sentire una mostruosa risata. Non capiva se nelle orecchie o nella testa ma la stordiva, allora cominciò a correre alla massima velocità che era nelle sue gambe e arrivò appena in tempo. Lui era steso inerme al suolo e un uomo fluttuante incombeva sopra di lui e rideva. Da dietro attraversò con la spada il petto dell'uomo fluttuante ma questo non morì e non lo fece neppure quando lui gli separò la testa dal capo e fuggì via. "Codardo", pensò, "temi questo mostro o temi me?". L'uomo fluttuante era ora diviso in un corpo, ancora fluttuante, e una testa posata al suolo che aveva ripreso a ridere. Piantò la punta della spada nella testa trapassandola da parte a parte e tutto si spense: il riso cessò e il corpo crollò al suolo. Riprese il suo inseguimento.

Era facile individuarlo pur in quella lunga fila. Si era accompagnato per tutto il tempo con un uomo vestito di colori vivaci che trascinava con se un grosso animale (senza corna questa volta) e la pelle nera lo faceva apparire come una macchia in quel serpente di persone. Seguì il flusso finché anche lei fu dentro a bastioni così grandi che la lasciarono senza fiato e poi si ritrovò davanti a un uomo seduto di fronte a un tavolo che le fece delle domande in una lingua che lei non capiva. L'uomo a un certo punto smise di parlare, trasferì del colore con una penna di uccello su qualcosa simile a pelle di animale e lei si ritrovò con questa cosa in mano senza sapere che fare e fu lì che ebbe il secondo incontro.
Di fronte a lei, in piedi, di schiena, stava una bambina nuda. I lunghi capelli rossi era raccolti in una treccia come era usanza per le femmine del suo popolo prima di raggiungere la pubertà, dopo la quale venivano fermati in un nodo in cima alla testa con aghi di osso. La bambina la vedeva solo lei che tutti quegli uomini che andavano avanti e indietro le passavano accanto senza notarla. A un certo punto la bambina, sempre dandole la schiena parlò: "devi andare giù in fondo, a sud troverai delle armerie. Combatterai la stessa guerra con lui e dovrai salvarlo. Solo così avremo la nostra vendetta". Le parole rimbombavano ma non c'era nulla di fronte alla bambina in mezzo a quello slargo.
Passò oltre nella direzione indicata e cominciò a pensare che questa cosa non riguardava più soltanto lei anche se non capiva come e perché, ma ciò che aveva visto e sentito parlava di tanti e non di uno solo.
Quando arrivò nell’armeria un uomo piccolo la squadrò, le disse qualcosa e la fornì di una lancia, uno scudo tondo di metallo leggero e un elmo. Poi se ne andò per un secondo e tornò con una corazza fatta con spessi pezzi di cuoio ma le stava piccola dato che lei era più alta della maggior parte degli uomini del sud. Allora l'uomo piccolo pensò un attimo e tornò con una strana armatura bianca e leggera, sembrava fatta dei tessuti cerimoniali del suo paese solo era più spessa e lasciava libere braccia e gambe. La indossò e da quel momento seguì le persone armate nel suo stesso modo fino a trovarsi, il giorno dopo, disposta in fila in uno di quegli eserciti che non fanno veder la terra di cui aveva sentito parlare nei racconti.

Lo cercava con lo sguardo. In quel mare di lance pensare di vederlo le pareva impossibile ma più avanti un elmo spiccava sulla linea degli altri: non poteva essere che lui. Poi successe di tutto ma lei tenne gli occhi puntati su quell'elmo più in alto degli altri. Erano come legati da una corda invisibile che poteva allungarsi ma non si spezzava mai e alla fine li poneva sempre uno davanti all'altra. Riuscì a seguirlo anche dietro la linea della cavalleria nemica e lo protesse quando si lanciò, da solo, contro quaranta soldati nemici pesantemente armati; sembrava volesse morire in quella battaglia.
Ma lui si gettava sempre più in profondità tra quei soldati con le armature lucenti e lei fu costretta ad arretrare per difendere se stessa. Lo vide inginocchiarsi per un colpo al costato, lo vide perdere l’elmo e osservò, senza poter far nulla, un nemico alzare la spada per finirlo. Ma la spada non calò perché una freccia si piantò nell'occhio di quel nemico. Da dietro stavano arrivando molti soldati e tra questi un arciere aveva scoccato quel colpo della salvezza. Da lì in poi tutto finì in fretta.

Lo osannavano. Un vigliacco traditore come lui, che non aveva avuto il coraggio di affrontarla ed era fuggito come un coniglio, veniva acclamata da tutta quella gente. Non lo conoscevano, lo credevano un eroe solo perché aveva buttato giù da un carro un vecchio che non era in grado di difendersi. Le parole lei non le capiva ma il resto era chiaro, quella gente era stupida e ingenua. La cosa le causò una rabbia terribile che fece fatica a contenere in quella sfilata e quando arrivarono e si sparsero tutti in un grande spiazzo decise che lo avrebbe ucciso davanti a tutti. Erano tanti in quel posto e ci mise parecchio per arrivargli alla schiena ma quando gli fu dietro tirò fuori il coltello digrignando i denti e si preparò a piantarglielo tra le costole. Ma si fermò quando comparve il re.
La sorpresa la bloccò: il re era uno del suo popolo. Non poteva essere un caso. Lei era lì per un motivo. Credeva fosse una cosa che riguardava solo loro due ma non era così. La fuga del suo uomo, il suo inseguimento, il trovarsi ora lì, in quel luogo, tutti e tre vicini, tutti e tre provenienti dalla stessa terra. Dimenticò per un attimo la vendetta e rinfoderò il coltello ma quando si ruppero le righe non smise dì inseguire l'eroe in giro per quello strano posto finché si persero entrambi in quel labirinto di costruzioni e lì ebbe la seconda occasione nello stesso giorno. Lo raggiunse da dietro subito dopo aver girato un angolo e gli posò la lama del coltello sulla gola. Lui, quando avvertì il freddo dell'arma, non disse nulla: allungò il collo e rilassò i muscoli come per prepararsi alla morte e renderle le cose più facili.
"Di qualcosa", pensò lei, "implora o impreca traditore ma non il silenzio" non arrivò nessuna parola. Lei ritirò il coltello e lui si allontanò senza voltarsi.

Guardava il suolo, quel suolo così distante e così diverso da quello della sua terra. Per cosa aveva fatto tutta quella strada? Per una vendetta personale che non riusciva a compiere? O era un altro il vero motivo?
Fu in quel momento che ebbe il terzo incontro: come alzò gli occhi, di fronte a lei, di schiena, c'era una donna. I lunghi capelli rossi, sciolti, arrivavano quasi al suolo e le spalle, pur aggraziate, erano forti, di chi é abituato alla fatica e alla lotta. La donna parlò e la sua voce rimbombava "sei qui per un motivo".
Tacque per un attimo e poi riprese: "più di trenta primavere fa, un giovane ma già eccezionale guerriero del nostro popolo incontrò dei mercanti che venivano da sud. Costoro gli fecero vedere una spada di acciaio e gli mostrarono la forza di quell'arma: la sua spada di bronzo si spezzò dopo pochi scambi dimostrativi. Il giovane guerriero ebbe un’illuminazione e fuggì via solo per tornare presto carico di pelli di animali. I mercanti apprezzarono moltissimo lo scambio e, oltre alla spada, gli lasciarono come regalo un anello dello stesso materiale.
Il giovane non disse nulla ai suoi compagni perché voleva avere quel beneficio solo per lui e tolse al suo popolo la possibilità di un vantaggio decisivo nella guerra contro i pellenera. Le spade di acciaio alla fine arrivarono ai nemici che le condivisero tra loro. Alla fine, aiutati dalla forza dell'acciaio, i pellenera spinsero noi rossi ancora più a nord, dove i lupi sono grandi come cervi e dove l'inverno dura quasi tutto l'anno. Per cercare di recuperare lo svantaggio anche noi donne da quel momento, imparammo a combattere e morire in guerra. Ma ormai era tardi e il disastro insanabile: il giovane guerriero egoista aveva condannato il suo popolo; il traditore fuggì al termine di un inverno, pieno di vergogna, dirigendosi verso sud...", la donna fece una pausa, "...e divenne re".
Poi continuò: "il tuo uomo ci serve vivo. Perché lui compierà la nostra vendetta. Un traditore per uccidere un traditore"
"Un traditore per uccidere un traditore" ripetè lei e tutto le fu chiaro.
A quel punto la donna si girò e lei si trovò di fronte a se stessa.
La voce della donne smise di avere un'eco e divenne netta e limpida, divenne la stessa di lei.
"Mancano ancora due cose", proseguì la donna, "un nome e un sacrificio. Dammi i tuoi vestiti e gli aghi di osso che ti tengono i capelli". Così lei fece e le parti si invertono.
"Ora nessuno potrà vederti. Dammi il nome che mi serve".
"Nanòk" rispose lei.

Le strane usanze del sud prevedevano che il corpo del re sconfitto venisse gettato dai bastioni più alti delle mura, fuori da quel grande villaggio. Lei era lì sotto ad attendere. Tagliò il dito recante l'anello di ferro e ripartì verso nord, per tornare alla propria terra. Durante il viaggio rubò vesti che la resero, in un primo momento, irriconoscibile quando giunse infine nella sua terra. Ma poi, di fronte agli anziani, mostrò l'anello di acciaio del grande traditore. Fu una liberazione per il suo popolo, la speranza di una rinascita.
Fu acclamata re: la prima donna tra la sua gente.

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