by Robo
Nanòk era partito in primavera proprio perché voleva
evitare il gelo. Ma sui passi montani un colpo di coda dell'inverno si
poteva incontrare e a lui capitò: una delle ultime tormente lo sorprese
in viaggio.
Era preparato. Gli stivali in cuoio tenevano i piedi all'asciutto
nonostante il bagnato che i fiocchi umidi e tardivi depositavano a terra
e il mantello di orso lo proteggeva dal freddo. Il problema era il
vento. Le folate aprivano varchi nel mantello e il gelo lo colpiva nel
costato come una spada. Era un uomo del nord abituato ai rigori ma si
rese conto che non avrebbe potuto resistere a lungo.
"Se non trovo un riparo per la notte, non posso farcela", pensò.
Deviò allora dal centro del sentiero che rappresentava la via più
diretta per superare la montagna e si spostò verso le macchie di
vegetazione in cui crescevano gli abeti. Ne cercò uno grande e vecchio;
sapeva come riconoscerlo perché gli alberi sofferenti hanno chiome rade e
sparute che contrastano con le dimensioni del loro tronco. Trovato un
candidato, spostò il mantello, estrasse la spada e, tenendola a
martello, iniziò a percuotere la corteccia con l’elsa finché un suono
sordo non gli indicò un vuoto nel tronco. Allora parlò ad alta voce:
"vecchio, ho bisogno del tuo corpo, non avercela con me". Usando la lama
vergò un colpo forte proprio in quel punto per rompere la scorza e poi
allargò il buco con le mani affinché fosse sufficiente ad accoglierlo.
Entrò con fatica e si accovacciò; il corpo muscoloso di Nanók dentro
quel tronco cavo ci stava a malapena, ma almeno era protetto dal vento.
Da sotto al mantello allungò con difficoltà un braccio fino a una sacca
attaccata alla cintura, la allentò e ne estrasse un pugno di carne secca
che consumò avidamente. Mise la testa tra le ginocchia e si addormentò.
Il giorno successivo superò la montagna e si trovò ai piedi di una
vasta pianura che, prima di allora, non aveva mai visto con i suoi occhi
ma di cui conosceva l’esistenza perché ne parlavano i mercanti che
d'estate si spingevano a nord per le pellicce.
"Ecco il sud piatto", pensò.
Il sud piatto non si mostrò, fin da subito, molto benevolo con
Nanòk: i corsi d’acqua che gli sbarravano la strada erano gonfi di acqua
del disgelo primaverile e trovare guadi risultò difficoltoso. Ad un
certo punto ne incontrò uno talmente impetuoso che fu costretto a
seguirne il corso, deviando leggermente a ovest. Procedendo l'alveo del
fiume si allargava e la corrente rallentava ma, anche per un buon
nuotatore come lui, un tentativo di guado nell'acqua gelida sarebbe
stato rischioso, così desistette e disse tra se e se: "grosso fiume del
sud, per ora vinci tu. Ma troverò il modo di attraversarti".
In realtà il fiume testardo gli diede un compenso che Nanòk seppe
apprezzare: cibo. Trovati i rami giusti lì affilò con il coltello e
costruì rudimentali fiocine per pescare. Il pesce non é stupido e Nanòk
lo sapeva, dalle sue parti si diceva: "puoi stare fermo immobile davanti
al fiume per tutta la vita, il pesce non ti salterà mai tra le mani"
avrebbe faticato per catturarlo.
Si mise a cercare punti un po’ rialzati vicino alla riva per vedere
il passaggio dei pesci, attendendo il momento giusto per affondare una
fiocina. Una volta andato a segno si gettava in acqua per raccogliere la
preda, poi accendeva un fuoco per asciugarsi e cuocere il pesce.
Approfittò dei sassi di fiume per affilare il pugnale di bronzo e usarlo
per mantenere glabra la testa; il suo status di guerriero glielo
imponeva e non si era più rasato dalla partenza. Così facendo trascorse
una settimana di viaggio e Nanòk sapeva che il fiume prima o dopo si
sarebbe gettato in un lago o nel mare. Il mare era da qualche parte a
ovest anche se nessuno del suo popolo lo aveva mai visto, ma ciò che il
suo popolo sapeva era che dal mare non poteva venire nulla di buono e
infatti così fu.
Nel nord vivevano tre popoli, tra questi quello di Nanòk abitava
una zona collinare a nord dei passi. Quella terra non era sempre stata
la loro, l’avevano conquistata duecento anni prima migrando da sud e ora
Nanòk stava facendo quel percorso al contrario. Un altro popolo era
quello che abitava sulla costa, costituito da predoni biondi che in
autunno risalivano il fiume con le loro grandi barche. Erano odiati
perché privi di onore; razziavano i villaggi quando gli uomini erano a
caccia e attaccavano anche di notte, notte che non é fatta per
combattere ma per riposare. Nanòk non li aveva mai visti perché la sua
terra era troppo a ovest e i fiumi troppo simili a grossi ruscelli per
essere navigati ma li odiava anche solo per averne sentito dire. Una
cosa che non sapeva e scoprì in quella occasione e che si spingevano
molto a sud. Poi c'era un terzo popolo.
A un certo punto del percorso una staccionata sbilenca bloccò il
percorso di Nanòk lungo il fiume, lui la superò mettendo i piedi in
acqua e, dall’altra parte, si trovò davanti un gruppo di grossi animali
mai visti. Cornuti, lo guardavano di sottecchi e tenevano la distanza.
"Per gli Dei!" pensò "che razza di bestie!". Poi afferrò dei ricordi in
cui i mercanti di pellicce parlavano di come gli abitanti della pianura
non cacciavano gli animali ma li tenevano prigionieri con il ricatto del
cibo. Stava valutando la possibilità di impalare con la spada uno di
quelli più piccoli quando sentì delle grida in avvicinamento, pensò
rapidamente che fare poi, non essendoci vegetazione per nascondersi, si
accovacciò nell'acqua del fiume che in quel tratto era torbida tenendo a
se il mantello. Fece in tempo a vedere una ragazza dalle vesti lacere
che scappava mentre un uomo dai capelli e dalla barba lunghi e biondi la
inseguiva ridendo e dicendo frasi in una lingua che non conosceva.
Quando furono molto vicini si immerse per farli passare senza essere
visto.
Ma non passarono, le urla della ragazza si erano fermate li ed
erano così disperate che le sentiva anche sott’acqua. Decise di
riemergere con cautela per osservare ciò che stava succedendo. Vide la
ragazza a terra e l'uomo sopra di lei che rideva più forte e le bloccava
le braccia. Si sollevò lentamente, lasciò il mantello e fece scorrere
la spada nella fodera di cuoio, si avvicinò e quando fu alla distanza
opportuna afferrò la lunga chioma bionda dell'uomo, gli sollevò la testa
e con due colpi di spada gliela staccò e la gettò nel fiume. "Offrire a
un nemico il vantaggio di una presa é cosa molto stupida", pensò
compiaciuto.
La ragazza tremava ed era così spaventata e traumatizzata, tutta
sporca di sangue, che non riusciva nemmeno a urlare; l'aspetto di Nanòk
non aiutava.
Usò tutta la delicatezza di cui era capace e parlò nella lingua del
sud per tranquillizzarla ma la voce gli usciva cavernosa e comprendeva
che lei pensava di essere caduta dalla padella nella brace. Allora si
chinó a terra così da diminuire l’impatto della sua mole e disse
"racconta". Come capì qualcosa del farfugliare della ragazza disse
"aiuto" e infine "vendetta": con una certa sua sorpresa fu quest'ultima
parola quella che fece più effetto.
La ragazza gli raccontò che, nel corso di quella notte, degli
uomini erano entrati nella loro casa. Lei era stata svegliata dagli
animali e, a sua volta aveva cercato di svegliare i fratelli ma gli
uomini gli erano arrivati addosso e li avevano uccisi. Poi avevano
portati fuori le donne, avevano legato il padre a un palo e fatto male a
lei e sua sorella. "Fatto male...", ripete mentalmente Nanòk, non era
la sua lingua ma una donna del suo popolo avrebbe usato parole come
quelle e poi avrebbe cercato di uccidersi o uccidere chi le aveva "fatto
male".
La ragazza meritava il suo aiuto. Buttò il corpo decapitato nel
fiume, coprì le tracce di sangue e si allontanarono ad attendere il
calar del sole in un posto più sicuro, se i compagni del biondo lo
avessero cercato non dovevano sospettare nulla.
Quando arrivò la notte uscirono dal nascondiglio e si avvicinarono
alla casa. Man mano che andavano avanti sentivano le voci degli
assalitori sempre più nitidamente: erano grida sguaiate alternate a
risate. Più volte dovette mettere un freno alla ragazza che procedeva
troppo in fretta e l'ultimo tratto lo fecero carponi. I biondi erano
euforici: avevano acceso un fuoco di fronte al palo cui avevano legato
il vecchio e cantavano a scuarciagola, si battevano pacche sulle spalle e
tiravano sassi contro quel poveretto appeso al palo che lottava per non
crollare in avanti, una donna era accucciata ai margini del gruppo,
sembrava cercasse di rendersi invisibile, ma non ci riuscì a lungo. Nel
corso della notte le fecero male a turno in parecchi, finché le bevande
fermentate non ebbero la meglio. Tre di loro si allontanarono
barcollando per raggiungere la barca nordica la cui prua era stata posta
in secca più a valle nel fiume, gli altri tre erano così ubriachi che
si addormentarono lì. A quel punto si mossero: fece segno alla ragazza
di non far rumore poi le diede il coltello di bronzo e le spiegò con un
altro gesto cosa doveva fare: tagliare loro la gola.
Il forte russare copriva i loro passi e Nanòk ne sgozzò uno
rapidamente con la spada mentre gli tappava la bocca col palmo della
mano, la vita sgorgò via in pochi secondi. La ragazza non doveva aver
capito bene, invece, perché si mise a cavalcioni di un altro e cominciò
ad affondare più e più volte il coltello ringhiando. Così facendo
svegliò il terzo che fece in tempo a rialzarci solo per ricevere la
punta della spada di Nanòk tra le costole; spirò subito senza emettere
un rumore.
Slegarono il vecchio che si unì alle due ragazze in un singhiozzare
sommesso. Era un pianto di dolore ma anche liberatorio eppure Nanòk
sapeva che non era finita, il giorno dopo i biondi sarebbero tornati e
li avrebbero uccisi tutti e quella gente non poteva fuggire perché tutto
ciò che possedevano era lì. A breve distanza c'era la barca madre con
almeno tre uomini, probabilmente di più, e quella notte era l'unica
possibilità per chiudere la cosa per sempre. Muovendosi con grande
circospezione e tenendo il falò come riferimento raggiunse anche lui
l'imbarcazione e il flebile chiarore di quella notte gli permise di
contare cinque uomini, quattro distesi sulle assi da poppa a prua, uno
appoggiato all'albero della vela. Pensò che non poteva sgozzarli tutti,
uno dopo l'altro, senza farsi scoprire, l'opzione migliore era un'altra e
la prese: salito a bordo cominciò a menare fendenti. A due spezzò il
collo che erano ancora stesi, altri due li abbatté mentre tentavano di
alzarsi, mentre solo uno, il più distante riuscì a estrarre la spada ma
fu sbattuto nell'acqua bassa da un calcio. Quando tentò di risalire
Nanòk gli aprì il cranio con la spada.
Sorrise dopo la mattanza perché, seppure con difficoltà, pensava di
poter governare la barca e con essa attraversare il grande fiume senza
correre rischi. Ancor meglio! A poppa in una piccola botte c'era della
carne conservata sotto sale che gli avrebbe fatto comodo. Gettò i
cadaveri in acqua e tornò sui suoi passi ma non trovò nessuno di fronte
al falò; fu indeciso se allontanarsi ma alla fine si coricò per la notte
sul retro della casa in mezzo a un cumulo di fieno caldo e lì si
addormentò con la mano sull'elsa della spada.
Il mattino dopo fu svegliato dal canto degli uccelli prima del
sorgere del sole, quando la luce cominciava a illuminare il levante.
Vide il vecchio avvicinarsi con molta cautela, tenendo per il polso
una delle due figlie, quella che lui aveva salvato; lei aveva lo
sguardo rivolto verso terra ed era recalcitrante a seguire il padre.
"Gi-gigante", balbettò, "ci hai salvato dagli uomini del nord. Noi
abbiamo poco. Ma tu scegli... se vuoi uccidiamo un vitello, oppure..." e
spinse in avanti la figlia che continuava a guardare il basso. Lui si
alzò, ringraziò con un cenno del capo e ripartì toccando con
soddisfazione la bisaccia ora piena di cibo.
Era stato parecchio complicato raggiungere l'altra sponda. Senza
poter remare e usando solo il timone non riusciva a imporre alla nave
una direzione costante. Quando fu vicino alla foce ebbe la fortuna di
incontrare l'alta marea che, invertendo temporaneamente la corrente del
fiume, gli rese più facile indirizzare la barca verso la riva e alla
fine si arenò in un terreno fangoso sull'altra sponda. Quando scese
salutò il grande fiume: "Avevo detto che ti avrei attraversato". Poi
alla propria destra vide il mare e fu una cosa che Nanòk non dimenticò
per il resto della vita.
Aiutandosi con il sole prese a spostarsi verso sud-est,
allontanandosi dalla costa e spingendosi nuovamente nell'interno. Le
cose cominciarono a cambiare: i sentieri diventavano man mano più grandi
e confluivano in altri ancora più grandi come fossero corsi d'acqua,
inoltre gli ultimi che incontrò avevano il fondo coperto di pietre
piatte i cui margini si incontravano quasi perfettamente. Sempre più
spesso dovette allontanarsi dalla via per nascondersi in qualche
cespuglio perché sentiva in lontananza voci di persone e, da un certo
punto in avanti, decise di muoversi di notte perché sapeva che il suo
aspetto era così inusuale che era meglio mostrarsi il meno possibile. Fu
cosa saggia purché le strade erano calcate anche dopo il calar del
sole, tanto che fu spesso costretto ad appiattirsi al suolo nella notte.
Su quei sassi si sentivano da grande distanza dei rumori forti che
all'inizio lo spaventarono parecchio, e che anticipavano il passaggio di
gruppi di animali veloci con la sagoma simile a cervi, solo senza corna
e montati da persone. Li aveva già visti, tiravano i carri dei mercanti
che d'estate superavano i passi e venivano a commerciare spade e arnesi
in cambio di pelli e denti di animali: si chiamavano cavalli. Inoltre
ai margini della via incontrava sempre più case e spesso erano il
medesimo posto dove si fermavano i cavalli e gli uomini a riposare; la
cosa lo fece essere ancora più guardingo ma gli consentì di rubare del
cibo, sebbene dovette accoppare più di un cane.
Un giorno all'alba trovò lungo il cammino una macchia di
vegetazione piccola ma fitta e decise di riposarsi per un giorno intero
che il lungo viaggio cominciava a stancarlo. Si accoccolò in mezzo alle
frasche e si assopì. Dormì per tutto il tempo che il sole impiega a
compiere l'arco del giorno e poi dormì anche la notte successiva; fece
un sonno senza sogni simile alla morte e quando si risvegliò era di
nuovo l'alba ma del giorno dopo. Pensò: "ho dormito per un attimo?".
Ancora non si era fatto giorno e tutto era uguale a prima: la luce, la
brezza, il canto degli uccelli; tutto tranne una cosa. Su una fronda lì
vicino, illuminato dalla luce che filtrava stava appeso un lungo capello
rosso. Capì in quel momento che il suo passato lo aveva seguito, non
era solo.
Proseguendo verso sud Nanòk vide le grandi strade lastricate
tornare a restringersi, le case ai bordi delle vie tornavano a essere
rare, il calpestio dei cavalli e le voci dei viandanti non si sentivano
più. Il sud piatto divenne ancora più piatto perché perse anche gli
alberi, restava solo l'erba, tanta erba. Si allungava in tutte le
direzioni e a Nanòk ricordò il mare che aveva conosciuto poco tempo
prima, solo che qui tutto era verde. Incontrò nuovamente i grossi
animali con le corna solo che stavolta non c'erano steccati; questi
vagavano, apparentemente liberi, ma non erano soli. Li seguivano grossi
cani bianchi, più simili a orsi per dimensioni, che gli intimavano di
tenersi a distanzi con latrati che sembravano tuoni. Nanòk diede loro
ascolto.
Ormai non si preoccupava più di essere visto da qualcuno perché
sentiva di essere vicino alla meta, lo sentiva nelle ossa e nella carne,
era una memoria profonda nel suo essere, una memoria del suo popolo. E
infatti alla fine ci arrivò e le vide: la paludi del passaggio. Niente
più cani e bestie cornute, l'erba affondava improvvisamente come ci
fosse un confine netto.
La sua gente non era nata nel nord, ci era arrivata alla fine di un
lungo viaggio. Erano partiti da terre boscose lontanissime, oltre i
passi montani, oltre i regni del sud piatto, oltre il mare d'erba, oltre
le paludi del passaggio. Partirono tutti: uomini, donne, vecchi e
bambini; un intero popolo in marcia. Nessuno fu lasciato indietro ma
moltissimi morirono durante il viaggio e solo i più forti videro la neve
dei passi. Da cosa fuggissero se l'erano, apparentemente, dimenticato
tutti: troppo tempo, troppe generazioni erano passate e la difficoltà di
sopravvivere nelle terre fredde impegnava allo spasimo il corpo e la
mente di tutti.
Lui stava facendo l'antico percorso al contrario, perché pensava
non gli rimanesse altro da fare. Senza compagni, senza la sua terra,
senza onore, cos’altro gli rimaneva? Le paludi del passaggio erano
l'ultimo ostacolo ma anche l'unico ricordo atavico che la sua gente
manteneva del viaggio e non era un ricordo positivo. Nanòk non sapeva
perché: i vecchi non lo sapevano o lo tacevano. Mise lo stivale a mollo
nell'acqua e trovò subito il fondo; pensò che forse non sarebbe stato
tanto difficile. E così mosse il primo passo poi il secondo, il terzo e
così via e l'acqua superava a malapena le caviglie. Quasi si mise a
correre e ridere vedendo quanto pareva facile. Poi vide in lontananza un
puntino colorato. Ancora troppo distante per capire che fosse, si
avvicinò finché non divenne chiaro che era un uomo, solo che non
camminava come Nanòk. No, i suoi piedi, abbandonati, tagliavano l'acqua
con le dita ma l'uomo non ci affondava, ci scivolava sopra. Era
completamente nudo e rideva, rideva fortissimo. Fu come se tutte le
paure sopite della sua gente si fossero risvegliate tutte assieme. Nanòk
si girò su se stesso e prese a correre, stavolta veramente, verso la
riva delle paludi. Aveva un certo vantaggio e ci arrivò per primo ma
invece di proseguire correndo si girò un attimo per vedere dove fosse
quell'altro. E così gli fu addosso.
Nanòk fu spinto a terra ma riuscì comunque a estrarre la spada;
schiena a terra vide l'uomo magro e emaciato che stava immobile davanti a
lui fluttuando. Abituato alla carne e al ferro ma non a questa cosa che
non conosceva fu preso dal terrore ma, indietreggiando, riuscì ad
alzarsi e sollevò la spada. La risata profonda e costante dell'altro
intanto lo stordiva, lo rallentava più quanto non facesse la paura.
L'uomo che fluttuava alzò le braccia lateralmente poi, con un movimento
veloce le spinse giù e quelle di Nanòk, come in uno specchio, fecero la
medesima cosa. Provò a opporsi ma non servì a nulla, si ritrovò come se
avesse le braccia legate al corpo da corde invisibili che non poteva
spezzare. L'uomo che fluttuava, sempre ridendo, spostò allora una mano
verso il basso e Nanòk si ritrovò in ginocchia poi spinse l'aria in
avanti col palmo della mano e Nanòk fu di nuovo con la schiena a terra.
Immobile, senza poter far nulla. L'uomo che fluttuava lentamente si
avvicinò e la risata ormai rimbombava così forte nella testa di Nanòk da
fargliela quasi scoppiare, poi improvvisamente si interruppe. Nanòk
guardò in avanti e vide la punta di una spada che spuntava dal petto
dell'uomo, poi la spada si ritirò. Questo gli diede una possibilità, si
rialzò più velocemente possibile e menò un fendente al collo dell'uomo
fluttuante facendogli saltare la testa che rotolò a diversi metri di
distanza. Divaricato dal capo, il corpo cominciò ad agitarsi come privo
di ogni controllo; braccia e gambe remavano nel vuoto mentre il torso
ruotava restando però fermo, a mezz'aria, nello stesso punto. La testa,
smesso di rotolare, ricominciò a ridere e Nanòk ricominciò a correre e
stavolta non si girò.
Ormai senza meta Nanòk tagliò verso nord dritto per dritto, come
una lama su una mappa. Così facendo attraversò posti in cui non era
ancora passato e quando le persone cominciarono a notarlo non se ne
preoccupo più, il destino avrebbe deciso per lui. Dopo qualche giorno di
cammino esaurì le provviste e la fame lo rese ancora più spavaldo tanto
che si spinse a minacciare i viandanti per ottenere cibo. Pensò che era
solo questione di tempo prima di incontrare il filo di una spada:
soldati, un gruppo di briganti, o la vendetta che lo inseguiva. A un
certo punto dovette interrompere il suo cammino lineare e non per un
ostacolo naturale o una costruzione ma perché si imbatté in una
lunghissima fila di uomini. Si mise ad osservarli e fu da questi
osservato ma nessuno si fermò: scorrevano davanti ai suoi occhi in una
precisa direzione che Nanòk, alzando gli occhi, poté far corrispondere a
dei bastioni che si scorgevano in lontananza sulla piana. C'era gente
di tutti i tipi, da soldati ben armati con lunghe lance e armatura a
straccioni con forcali. Quello che era chiaro e che erano tutti pronti a
combattere. A un certo punto passò un uomo a cavallo, l'unico. Quando
questo vide Nanòk uscì dalla fila e si avvicinò ma a breve distanza
smontò dall'animale e lo salutò: "salve gigante nero del nord. Io sono
Murilo, posso sapere il tuo nome?". Nanòk apprezzò molto che lo
sconosciuto fosse sceso dalla cavalcatura perché un uomo non alza gli
occhi per parlare con un altro uomo ma il nome, al nord, é una cosa
importante e si condivide solo con gli amici e i compagni di battaglia.
Rispose al saluto ma declinò di rispondere sul proprio nome e fece, a
sua volta, una domanda: "dove va tutta questa gente?". L'uomo di nome
Murilo si mostrò gentile: "vanno tutti alla guerra. Non sai nulla di ciò
che sta per succedere?".
"No", rispose secco Nanòk.
"Allora permetti che te lo spieghi" cominciò Murilo, "ci sono due
vasti regni in queste terre che stanno tra la catena montagnosa boreale e
i pascoli senza alberi del sud, uno è posto a est e giunge fino al
mare...sai cos'é il mare?".
Nanòk annuì e Murilo proseguì con la spiegazione: "l'altro è a
ovest e giunge fino alle cave di ponente. Qui sta il problema."
concluse.
Nanòk non capiva, "che problema?", chiese.
"Il problema é che dipendono l'uno dall'altro per
l’approvvigionamento di certe materie prime e pur odiandosi fieramente
non gli conviene giungere a una guerra aperta, al massimo si arriva a
qualche scaramuccia di confine. Però, in tal modo, la tensione tra i due
regni si accumula così tanto che, prima o dopo, esplode in una grossa
campagna in cui si scontrano i due eserciti al completo. É già successo
in passato e sta per succedere ora."
L'uomo di nome Murilo parlava difficile nella lingua del sud e
Nanòk non aveva inteso tutto ma di certo aveva capito che ci sarebbe
stata una grande battaglia è che era già successo in passato. "E chi ha
vinto le altre volte?" chiese.
"Nessuno. I costi degli armamenti, il soldo dei mercenari, la morte
di tanti giovani porta a un impoverimento tale e reciproco che per
tanti anni la pace é obbligatoria e i commerci riprendono", rispose
Murilo.
"Allora che fa qui tutta questa gente e tu che ci fai?" chiese Nanòk.
"Gli altri cercano denaro, uomo del nord. Io cerco la gloria" e sorrise.
Nanòk decise che morire combattendo era la cosa più nobile che gli
rimaneva e si unì alla fila e a Murilo. Era chiaro che quest’ultimo era
un eccezione lì nel mezzo: aveva il cavallo, vesti eleganti e colorate e
un modo di fare particolare, inoltre non aveva paura di Nanòk e questo a
Nanòk piacque molto.
Il viaggio durò parecchio. La fila a volte si fermava come se la
sua testa avesse incontrato un ostacolo, poi lentamente ripartiva e, a
poco a poco, i bastioni in lontananza si ingigantivano fino a divenire
impressionanti. Mura enormi, alte come una collina stavano di fronte a
Nanòk che si chiese come gli uomini potessero costruire cose del genere.
La fila di persone scompariva dentro le mura, da una certa distanza ne
pareva come ingoiata, più da vicino si vedeva che c'era un’apertura
posta tra due imponenti blocchi più spessi del resto delle
fortificazioni. Questi reggevano una porta di legno a due ante, aperta:
era la porta più grande che Nanòk avesse mai visto
Una volta dentro furono fatti attendere in un vasto spiazzo poi
indirizzati verso una decina di postazioni in ognuna delle quali vi era
un soldato in piedi e un altro uomo seduto davanti a un tavolo di legno.
Nanòk seguì Murilo e ascoltò i discorsi che fecero una volta giunti
davanti all'uomo seduto: "nome!" intimò questo.
Al che Murilo rispose: "Murilo Neràli Anakalotari, signore delle
terre alte di levante e successore di terzo grado al principato di..."
"Basta così", lo interruppe l'uomo seduto, "classe guerresca!"
"Arciere a cavallo o a piedi" rispose Murilo.
"Di arcieri a cavallo non ne abbiamo bisogno, di arcieri a piedi
non ce ne sono mai abbastanza" disse l'uomo seduto. Poi prese una piuma
d'uccello poggiata sul tavolo e ne bagnò la punta in un contenitore
pieno di liquido nero e tramite la punta trasferì il nero su una
pergamena che poi consegnò a Murilo.
Infine disse: "vai con questa in una delle armerie in fondo a
destra e mostra la pergamena. Ti saranno fornite molte frecce. Il
cavallo lo puoi portare nelle scuderie ma non ti garantisco di
ritrovarlo".
Poi toccò a Nanòk.
"Nome!" Riprese l'uomo seduto senza nemmeno alzare gli occhi. Silenzio.
"Nome!" Ripetè. Silenzio. A questo punto alzò il capo e guardò chi aveva di fronte: Nanòk era impassibile.
"Prima linea", disse allora l'uomo seduto, fece quella cosa con la
penna di uccello e consegnò la pergamena a Nanòk dicendo: "armerie in
fondo a destra".
Nanòk aveva parole nella sua lingua per destra e sinistra, c'era la
mano della spada e la mano del coltello, ma si confondeva spesso nella
traduzione perché non per tutti gli uomini la mano della spada era la
stessa e la sua gente usava il sole e le stelle come punti di
riferimento per qualsiasi cosa. Decise quindi di proseguire con Murilo
per arrivare in armeria.
L'armiere, un uomo piccolo e magro, lo guardò un attimo poi disse: "non ho armature per questo qua!".
Murilo, che aveva nel frattempo ricevuto le sue frecce, intervenne:
"non vorrai mica spedirlo di fronte alla cavalleria pesante senza
armatura!?"
"Ci vorrebbe un'armatura a piastre su misura, posso trovare
qualcosa da mettergli su torace e schiena ma le gambe e le braccia sono
troppo grosse, resteranno così" rispose l'armiere, poi disse: "la
spada?".
Nanòk la estrasse e la fece vedere ma non la consegnò. Era una
spada di acciaio acquistata dai mercanti e per Nanòk valeva come la
vita, senza spada un uomo non é un guerriero e un guerriero con una
spada di acciaio é degno di rispetto. Il popolo di Nanòk non aveva la
capacità di fondere il ferro e per tanto tempo aveva combattuto con
spade di bronzo contro i propri nemici, furono le spade di acciaio a
fare la differenza e a regalare loro la vittoria.
"Lo vedo da qui che é sbilanciata. Magari la lega é giusta ma i
pesi sono sbagliati. Riesci a usarla solo perché sei così forte,
comunque tienila, io di spade ne ho solo per i nobili" concluse
l'armiere. Poi gli mise addosso delle piastre di metallo collegate da
funi e catene: alcune gli cadevano davanti, altre dietro nel torso.
L'armiere le stabilizzò facendogli passare i cappi liberi delle funi
diverse volte intorno alla vita, poi gli diede un elmo, una lunga asta
di legno con la punta in metallo e un pesantissimo scudo di bronzo.
"Tienili alti tutti e due, se lo fai potresti sopravvivere alla
prima carica, alla seconda ne dubito. Ma sei una cosa che non ho mai
visto e forse la tua pelle scura è più dura della mia", concluse
l’armiere.
Nanòk aveva intuito cosa significasse prima fila. Fu posto, come si
aspettava, davanti a tutto l’esercito schierato, insieme ad altri
uomini di una certa stazza come lui. Lo scudo particolarmente grande e
pesante, doveva proteggerlo da quella cosa di cui tutti parlavano e che
lui non aveva mai visto, pur avendo combattuto tante battaglie nella sua
terra: la carica della cavalleria pesante. Non c'era stato
addestramento perché non c'era stato tempo; il giorno dopo il loro
arrivo erano stati schierati davanti ai bastioni ed era stata una cosa
lunga, dall'alba fino a che il sole fu alto in cielo.. Erano stati messi
nei posti loro assegnati partendo proprio da loro, quelli della prima
linea con le picche più lunghe, poi le seconde e terze linee, poi un
gran numero di soldati con scudi leggeri e lance più corte e resistenti
mentre gli era stato spiegato che la sua, se ben utilizzata, avrebbe
dovuto rompersi e la punta restare infilzata nel nemico. Nessuno con la
spada, non serviva, gli dissero, contro la cavalleria pesante, ma lui la
sua se la portò in battaglia.
Stettero lì immobili, senza acqua e senza potersi muovere per ore.
Qualcuno lasciò correre i bisogni corporei, qualcuno cominciò a
bestemmiare i propri dei ma nessuno si mosse, anche perché davanti alle
linee passavano continuamente dei lancieri a cavallo per controllare che
le linee restassero chiuse.
Nel pomeriggio, in lontananza di fronte a loro, comparve una linea
grigia. A poco a poco dalla linea spuntarono teste e lance. Teste di
cavalli dapprima poi anche quelle dei cavalieri divennero distinguibili,
il sole le illluminava da sinistra facendole risplendere. Poi si videro
innumerevoli bandiere e infine si sentirono le trombe dell'esercito
nemico cui risposero quelle dietro Nanòk che erano il segnale della
battaglia. Non era un modo di combattere di cui Nanòk avesse esperienza:
al nord l’equivalente delle trombe erano le grida dei compagni e quando
si sentivano bisognava urlare a propria volta e gettarsi sul nemico, lì
invece bisognava restare fermi.
Alla fine i cavalli, pesantemente corazzati, partirono dopo un
altro squillo di tromba. Il fragore che produssero all'inizio parve poca
cosa ma, mano a mano che si avvicinavano il rombo cominciò a rimbalzare
nel petto e nelle ossa dei soldati accanto a Nanòk. La sera prima la
birra era corsa a fiumi ma ormai erano tutti sobri e la paura si faceva
strada, indeboliva la presa sugli scudi e le lance. Nanòk si girò verso
la seconda linea dietro di lui e disse: "appoggio la mia lancia sul tuo
scudo, tu fai lo stesso con l'uomo dietro di te. Dobbiamo essere una
cosa sola. Se cedi ti sbudello, se cede quello dietro di te vi sbudello
tutti e due. Diglielo," poi si girò.
Se la corsa della cavalleria somigliava a un tuono prolungato
l’impatto fece il rumore della saetta che ne consegue: un
"krak-tang-krak". Legno contro metallo. La lancia di Nanòk si spezzò
facendo il suo dovere, il suo scudo parò il colpo, due cavalli
continuarono la loro corsa cadendo ai suoi lati. Si girò e dietro di lui
le linee erano intatte, altrove si erano formati buchi che venivano
riempiti dai soldati più leggeri. Era sopravvissuto alla prima carica.
La seconda fu peggio. Due lance colpirono il suo scudo da destra e
sinistra quasi strappandoglielo di mano benché lo avesse legato al polso
poi la corsa di un cavallo lo investì finendo dietro di lui e distrusse
la disposizione dei compagni di schiera che aveva resistito al primo
assalto. Ormai dappertutto le linee erano aperte, i soldati più leggeri
non erano efficaci contro un cavallo in corsa, di lunghe lance di legno
non ce n'erano più e qualche cavaliere aveva sfondato.
Sentiva grida dietro di lui.
Altro colpo di tromba e partirono le frecce, da ambo le parti.
Nanòk pensò subito a Murilo che era dietro di lui. I colpi del nemico
rimbalzavano contro il pesante scudo di bronzo ma fecero strage di
soldati leggeri che avevano protezioni limitate. Dall'altra parte la
terza carica fu resa meno coesa dal nugolo di frecce amiche ma Nanòk
capì subito che, senza lancia, senza compagni dietro di sè, un terzo
impatto non lo avrebbe retto. Allora fece una cosa che nessuno aveva mai
fatto prima: corse in avanti, anticipando la cavalleria e quando le fu
di fronte scivolò di schiena al suolo ponendo lo scudo sopra di sé. Due
cavalli gli passarono sopra ma non si fece nulla. Si rialzò dietro la
cavalleria. Davanti a se quasi nessuno, a parte i corpi crivellati di
frecce al suolo. Pochi arcieri spaventati fuggirono quando lo videro
avvicinarsi. Dietro un grosso baldacchino con una sorta di tetto in
metallo trainato da una lunga fila di cavalli si avvicinava. In cima un
uomo con una corona in testa e intorno dei soldati a piedi con armature
dorate e spade imbracciate. "Finalmente" pensò Nanòk, e invece delle
trombe stavolta si sentì il suo ruggito mentre si gettava in mezzo a
quegli uomini. Usando lo scudo come ariete si fece strada nella loro
formazione, poi fortunatamente questo gli si staccò da polso. Cominciò a
menar fendenti da tutte le parti, sentiva carne e metallo sotto la sua
spada e la cosa lo esaltava. Era in mezzo a soldati addestrati e stava
ancora sfruttando la sorpresa e loro ridotta possibilità di manovra
vista che erano tanti intorno a un uomo solo, sapeva però che era
questione di tempo prima che avessero la meglio su di lui. Un colpo al
capo gli portò via l'elmo, uno al costato ammaccò una delle piastre
posticce della sua armatura e gli tolse il fiato. Finì a terra mentre un
uomo di fronte a lui alzava la spada per un fendente mortale ma una
freccia gli si piantò in un occhio. Altre sibilarono dietro le orecchie
di Nanòk, qualcuna passava così vicina da sentir l'aria che spostava.
Pensò di nuovo che c'era Murilo a coprirlo. Si rialzò e caricò ancora.
Nel frattempo erano giunti anche i lancieri leggeri che, impegnando
i guerrieri dorati, gli permisero di avanzare ancora. Altri due nemici
abbattuti e si trovò di fronte al baldacchino; sopra l'uomo con la
corona non lo degnò di uno sguardo.
"Mi guarderai" ringhiò. Si liberò di quel poco di armatura che era
rimasta e balzò sul piano più basso del baldacchino. Salì altri 2 piani
dello stesso e si trovò di fronte all'uomo coronato che ancora non lo
guardava. Gli piantò la spada nella pancia con una tale violenza che la
sentì stridere contro la colonna vertebrale prima che punta uscisse
dall'altra parte. Poi gettò il corpo al suolo.
Un suono sordo risuonò nella piana. Forse, pensò Nanòk, il rumore
di un re che cade è diverso da quello degli altri uomini. Subito dopo i
guerrieri dorati abbassarono le spade e si fecero trucidare, i pochi
cavalieri rimasti furono disarcionati e uccisi. La battaglia era vinta.
La notte era piena di fuochi. I corpi dei nemici uccisi erano stati
ammassati e, una volta recuperate armi e armature, aggiunte sterpaglie:
il tutto dato alle fiamme. Attorno i vincitori ubriachi di birra e
festanti e un odore di carne bruciata. Nanòk, seduto in quella calda
notte nei pressi di uno di quei falò veniva continuamente disturbato da
compagni d'arme che gli davano pacche, urlavano ammirazione e
congratulazioni; a un certo punto decise che, al prossimo che gli
avrebbe dato una pacca, gli avrebbe tagliato la mano. A un certo punto
sentì una voce: "mio nerboruto amico!".
Riconobbe Murilo. "Mi chiamo Nanòk", rispose.
Murilo restò sorpreso e in silenzio.
Nanòk proseguì, "abbiamo combattuto dalla stessa parte. Le tue
frecce hanno colpito i miei stessi nemici. Ora siamo fratelli, Murilo".
"Ne sono onorato, Nanòk. Io, pallido nobile arciere delle terre
alte, fratello di un gigante nero del nord... festeggiamo a birra e
puttane!"
"La vostra birra é scadente e non la bevo. Le puttane non mi
interessano, quando hai avuto il meglio, il resto non vale più nulla",
rispose Nanòk.
Murilo si sedette accanto a lui, "così mi incuriosisci. Il mio
novello stato di fratello in armi mi dà diritto a saperne di più?"
"Non c'è molto da dire, sono un fuggiasco e un traditore. Un vigliacco", disse Nanòk.
"E da cosa fuggi fratello?" chiese Murilo
"Dalla vergogna di aver tradito la mia gente e da una donna", rispose Nanòk.
"E ci sei riuscito? Intendo a fuggire", chiese ancora Murilo
"Né da una né dall'altra cosa. La vergogna mi segue ovunque e la donna lo stesso" rispose Nanòk.
"Fratello cosa possono farti la vergogna e una donna?" chiese Murilo
"La vergogna mi rende acida la birra, la donna mi ucciderà".
Il giorno dopo partirono per la capitale, cento miglia a ovest.
Lui, Murilo che non aveva più trovato il suo cavallo e una parte
dell'esercito, quella alle dipendenza dirette del regno mentre quasi
tutti i mercenari furono pagati e lasciati liberi di andare. Gli onori
per Nanòk esigevano invece questo viaggio di cui avrebbe volentieri
fatto a meno ma il re li attendeva e si diceva fosse ansioso di
conoscere il grande guerriero del nord che da solo aveva sgominato
l'esercito nemico. Nanòk non sapeva se ciò che aveva fatto avesse
davvero cambiato le sorti della battaglia, anzi in realtà era convinto
che avrebbero vinto ugualmente. Però li lasciò fare, anche perché Murilo
godeva del ruolo di amico dell'eroe e Nanòk era contento se i suoi
amici stavano bene. In quei giorni Nanòk parlò molto, molto per le sue
abitudini che Murilo lo ubriacava di parole e gli diceva che avrebbero
ancora combattuto insieme, che c'erano altre battaglie da inseguire e
avrebbero trovato insieme la gloria. Nanòk invece gli raccontò del suo
popolo che era partito dal profondo sud, oltre le paludi, e giunto fino
ai passi del grande nord. E della paura dei suoi avi per i rossi che
abitavano quelle terre gelide e di come, col tempo, fossero stati i
rossi ad aver paura di loro. E che aspettava con ansia le battaglie non
per uccidere i nemici ma per incontrare una donna dei rossi, che questi,
ormai rimasti in pochi, facevano combattere le proprie femmine. E lui,
invece di combattere, si appartava con lei, mentre i suoi fratelli
morivano nella battaglia. E di come la vergogna lo aveva spinto ad
andarsene.
Murilo era un compagno gradevole, parlava tanto come una donna ma
era sincero, diceva quello che pensava anche se spesso non pensava a
quello che diceva: una volta, di fronte all'ennesima esaltazione di
Murilo per le proprie capacità di arciere Nanòk gli fece notare che
loro, a nord, usavano l'arco solo per la caccia ma che consideravano
colpire a distanza un nemico stando a distanza dalla di lui spada molto
poco glorioso. Alla sorpresa di Murilo sorrise e disse: "se vuoi
trafiggere un nemico usa la spada, se vuoi trafiggere un amico, usa la
lingua".
"Nanòk quando incontrerai il re vedrai che ne rimarrai colpito"
aveva detto Murilo. Lui non chiese altre spiegazioni ma un re lo aveva
da poco passato alla spada e pensò che un altro non doveva essere poi
tanto diverso. "Sempre carne e ossa e corona", pensò. Dopo qualche
giorno di marce forzate giunsero di fronte a una cinta di mura, più o
meno come quelle dell'avamposto di fronte al quale si era svolta la
battaglia. La differenza stava tutta dentro: anziché bivacchi di soldati
e costruzioni di legno per conservare armi e cibo c'erano case fatte
con roccia e mattoni e tanta, tanta gente attorno. Li fecero marciare e
tutti urlavano contro di loro ma non per rabbia, li acclamavano, e a
Nanòk parevano tutti pazzi. Alla fine la fila dei soldati, preceduta
dagli ufficiali a cavallo, giunse in un vasto spiazzo circolare: i
cavalieri entrarono per primi spostandosi ai lati e permettendo al
grosso del gruppo, gli uomini a piedi, di porsi al centro dello spiazzo.
Di fronte a loro un masso enorme che sembrava caduto dal cielo, tanto
era diverso da tutto ciò che vi era intorno. In quella roccia, a una
certa altezza da terra, era stata ricavata una seduta per una persona e
dei gradini per accedervi dal basso. Un trono, immaginò Nanòk.
Di lì a poco un uomo alto entrò da un lato passando attraverso dei
lanceri che, ai lati di costui, formavano mano a mano un percorso
attraverso il quale l'uomo raggiunse la base della grande pietra. Salì i
gradini e si mise sulla seduta, dominando con lo sguardo lo spiazzo di
fronte a lui.
Murilo aveva ragione. Nanòk era colpito. Il re era un rosso, uno
della odiata stirpe nemica della sua gente. Aveva ancora i capelli color
rame raccolti in una sorta di nodo fermato da punte di legno al centro
della testa, al modo dei guerrieri di quel popolo. Quel grumo di capelli
affiorava al centro della bassa corona.
"La sua pelle è bianca come la mia ma è un uomo del nord come te", gli sussurrò Murilo.
"Cosa ci fa lì?" chiese Nanòk
"Quello é il trono di pietra. Ci é salito dopo aver ucciso il re precedente e poi nessuno lo ha più spostato", rispose Murilo.
"Qui a sud tutti possono diventare re?" chiese ancora Nanòk
"Devi essere un eroe della guerra, un campione riconosciuto. E poi
devi essere acclamato dall'assemblea dei cavalieri, non basta lanciare
la sfida" rispose Murilo.
"É una cosa stupida", pensò Nanòk ma non lo disse. Pensò che loro, a
nord, non avrebbero mai tolto il guerriero più forte dalla battaglia
per farlo decidere sulle cose di tutti i giorni
Il re parlò ai soldati e alla gente festante che si raccoglieva
attorno a quelli. Disse parole vuote; Nanòk faticò a comprenderle tutte
ma sarebbero state vuote in qualunque lingua. Avrebbe preferito
ascoltare Murilo vantarsi per un giorno intero. Almeno era sincero.
Invece quello che il re diceva non era vero, neppure quando esaltava i
soldati che avevano vinto. La loro vita e morte non contava nulla per il
re. E si capiva benissimo. Si chiese se intorno a lui fossero tutti
molto stupidi o molto furbi.
Ci fu un rompere le righe ma Nanòk fu invitato a restare in città
da dei vassalli, caldamente invitato. Quella sera lo spiazzo sarebbe
stato illuminato da grandi fuochi e il popolo non vi avrebbe più avuto
accesso. Vi avrebbe avuto luogo una festa con un banchetto per i nobili
del regno e un omaggio al grande guerriero del nord e al suo amico
arcere. Murilo non stava più nella pelle.
Si persero di vista e Nanòk aspettò il tramonto muovendosi da solo
in quella cosa che era la città, fatta di duri minerali, plasmata dagli
uomini e senza alberi. Gli sembrò qualcosa di orribile e pensò che non
sarebbe mai riuscito a vivere in un posto come quello, o forse sì, chi
poteva dirlo? Camminò e si perse diverse volte ma ritrovò sempre la
strada perché era abituato a orientarsi col sole e quindi conosceva
sempre la direzione da seguire. Ma c'erano anche piccole strade tra gli
edifici nelle quali il sole non si vedeva e da uno di questi labirinti
fece fatica a trovare l'uscita. A un certo punto, girato un angolo,
sentì un rumore dietro di se e mise la mano sull'elsa della spada,
pronto a girarsi. Però non lo fece. Allentò la presa sull'elsa e rimase
immobile. Quando sentì il freddo della lama del metallo sulla gola,
distese il collo alzando la testa verso l'alto così da favorire il
taglio e attese. Il coltello si ritirò, Nanòk riprese il cammino per
uscire dalle vie scure verso lo spiazzo del re.
Le guardie che bloccavano gli accessi allo spiazzo lo fecero
passare subito. D’altra parte non c'era nessuno come lui in quel posto,
il colore della pelle lo distingueva da qualsiasi altro uomo. Lo spiazzo
di fronte al trono di pietra era grande ma non conteneva tante persone
in quella occasione. Qualche decina di nobili che avevano combattuto a
cavallo nella battaglia di qualche giorno prima e un centinaio di
serventi che approntavano forni e spiedi in cui cuocere la carne, ma
Murilo non si vedeva. Era sorpreso dell’ammirazione che gli tributavano
tutti perché lui era sì un forte guerriero ma non uno che si
distinguesse particolarmente tra i suoi; a nord era uno dei tanti mentre
lì sembrava fosse un eroe invincibile. Quei cavalieri lo salutavano
chinando il capo con rispetto nelle loro armature sfarzose mentre lui
era ancora a torso nuda da quando, nel corso della battaglia, si era
liberato della sua rozza armatura a piastre. Forse, pensò in quel
momento, non era tanto il merito della vittoria, era che aveva ucciso un
re. E quella gente dava a un gesto come quello una grande importanza.
Da loro se uccidevi il re, diventavi tu il re. E nessuno di loro era mai
riuscito a fare una cosa del genere anzi, come gli aveva spiegato
Murilo, il rosso del nord aveva ucciso tutti quelli che avevano provato a
sfidarlo.
Al tramonto vi fu l'entrata del re, sempre con i lanceri che
seguivano il percorso del loro sovrano costruendo attorno a lui una via
con i propri corpi. Il re poi salì i gradini di pietra, si sedette e poi
alzò un braccio, attese l'esatto momento il cui il sole scomparve sotto
l’orizzonte e lo abbassò. I nobili allora sfoderarono tutti assieme le
loro spade e tenendole verso il cielo lo salutarono dopodiché si
accesero i fuochi per il banchetto.
Nanòk mangiò carni tenerissime per i suoi canoni. Pensò che non
potevano essere di animali, forse erano bambini tanto erano dolci. Lo
chiese anche a un cavaliere che, interpretando la domanda come fosse
scherzosa, proruppe in una fragorosa risata e così fecero altri suoi
pari quando il cavaliere lo raccontò loro. Ma col passar del tempo Nanòk
divenne sempre più nervoso perché si sentiva osservato e non da uno
qualsiasi: si sentiva osservato dal re.
Questo era stato per ore immobile, seduto in alto nel trono di
pietra ma gli alti bracieri accesi per la notte ne illuminavano il viso.
Stava lì, mentre i suoi generali mangiavano e ridevano, con un
espressione cupa e guardava Nanòk. A un certo punto, riempita la pancia
alla sua massima capacità e visto che Murilo non era evidentemente in
quel luogo Nanòk fece per andarsene e si allontanò dalle braci per
avviarsi verso una delle vie di uscita guardate dai soldati. Ma proprio
in quel momento il re si alzò e urlò come un ruggito il suo nome:
"Nanòk!"
I cavalieri avevano smesso di gozzovigliare e si erano ammutoliti.
Il re scese lentamente le scale e si diresse verso Nanòk, seguito dalla
sua personale corte di lanceri. Il re si avvicinò e ripete: "Nanòk...
sorpreso? Il tuo nome, il tuo prezioso nome pronunciato da un nemico. So
che è molto spiacevole". Il re si avvicinò ancora e così fecero i
lanceri che seguivano ogni suo passo, ora era quasi a portata di spada
ma c'era una selva di picche a proteggerlo. Nanòk pensò che era come un
grande istrice e che il re era la testa di questo istrice e lui non
poteva arrivare alla testa, non per il momento.
Il re quasi sussurrò: "il mio nome non lo sa nessuno qua. Non ho
amici con cui condividerlo, come hai fatto tu", poi sorrise vedendo
l’espressione di Nanòk.
"No", proseguì, "il tuo improbabile compagno non ha detto nulla",
poi batté le mani e due serventi si avvicinarono ognuno con un piccolo
recipiente, li posarono ai piedi del re per poi ritirarsi.
Il re si chinò e tirò su una testa mozzata dal recipiente di
destra, era quella di Murilo. "É morto piuttosto che dire il tuo nome.
Sorprendente. Non mi pareva il tipo. Invece sì è dimostrato coraggioso
al costo della vita. Sai scegliere le tue amicizie". La mano di Nanòk si
diresse all'elsa e il re lo notò e sorrise di nuovo.
"Non ti chiedi come faccio a sapere il tuo nome?" disse e nel
mentre si avvicinò al secondo recipiente da cui estrasse una testa
mozzata, stavolta di donna. La sollevò per il nodo di capelli rossi
posto in cima alla testa, la medesima disposizione della chioma del re.
Nanòk strinse l'elsa mentre il re sembrava aspettare la sua mossa,
circondato da tutti i suoi lanceri.
Ma Nanòk si fermò. Lasciò la presa sulla spada, girò le spalle al
re e si rivolse ad alta voce al consesso di cavalieri che erano restati
in silenzio fino a quel momento: "chiedo la sfida!" gridò. Ci fu un
attimo di silenzio poi alcune voci d'approvazione si levarono poi altre
finché fu tutto un acclamare all'unisono, allora Nanòk si girò di nuovo
verso il re.
"Sei furbo pellenera. Io ero come te, un fuggiasco pieno di
vergogna e senza onore" disse il re a denti stretti, "la mia vergogna mi
ha portato un regno".
Nanòk gli rispose per la prima volta: "per riavere il mio onore io darei un regno".
Il re tentennava. Camminava avanti e indietro di fronte a Nanòk, il
suo andirivieni era accompagnato dalle picche che si spostavano
seguendolo con un minimo ritardo e disegnando una sorta di onda di punte
metalliche.
Poi si fermò è cominciò a parlare: "essia!" gridò, "la sfida è
accettata! Il re combatterà per il trono di pietra come tradizione
comanda e come onore e valore impongono!"
Nanòk capì subito che queste parole erano per i cavalieri, poi
arrivarono, dette a bassa voce, quelle per lui: "pellenera, tu sei
giovane e arrabbiato. Io vecchio, con la pancia piena di piaceri e le
palle svuotate. Non durerei in un duello a spada e coltello. Quindi se
vuoi il duello getta il pugnale di bronzo".
Nanòk tolse il coltello dalla fondina e lo lasciò cadere, allora il
re si fece portare uno scudo tondo di metallo leggero e un un'ascia con
un contrappeso alla base del manico. Era chiaro che il re voleva i suoi
vantaggi: Nanòk aveva combattuto diverse volte contro i rossi al nord e
gli scudi non erano contemplati.
Il re fu il primo a colpire, senza preavviso. Il peso dell'ascia
costrinse Nanòk a mettere anche la seconda mano sull'elsa per sostenerne
i colpi e questo gli tolse mobilità, le sue risposte invece si
infrangevano sullo scudo; era un tipo di scontro cui non era abituato. A
forza di menar fendenti e di parare cominciò a stancarsi e il re se ne
accorse e aumento il ritmo dello scontro finché riuscì a urtare Nanòk
con lo scudo e farlo finire a terra. Il re alzò la braccia in segno di
trionfo e si levò un applauso fintamente entusiasta da parte dei
cavalieri.
Nanòk approfittò di quella pausa per rimettersi in piedi e pensò
che sprecare l’occasione di finire un nemico è una cosa così stupida che
al nord nessuno l'avrebbe mai fatta. Sì, era un tipo di combattimento
cui non era avvezzo e il re lo aveva volutamente posto in una condizione
di inferiorità, ma non aveva neppure mai affrontato prima una carica di
cavalleria, eppure era sopravvissuto. Cominciò a colpire di meno e a
spostarsi di più, soprattutto dal lato dello scudo; cominciò a affondare
di più la spada piuttosto che usare dei fendenti; cominciò anche a
fintare e indurre il re a alzare lo scudo perdendo campo visivo;
stavolta fu il re che cominciò a stancarsi. Durante una di queste mosse
riuscì ad avvicinarsi tanto da poter spingere con forza sullo scudo
facendo barcollare e poi cadere il re. Nanòk non sprecò la sua
occasione: fu subito addosso al re e lo colpì alla fronte, spostandogli
la corona e aprendo un fiume di sangue che colò sugli occhi, poi lo
prese e lo girò pancia a terra, lo afferrò per il nodo di capelli rossi e
gli tirò su la testa mentre con un ginocchio lo bloccava al suolo.
"Sai rosso. La verità é che a me, del tuo regno, non importa nulla"
gli sussurrò all'orecchio. Poi si guardò intorno e vide, lì vicino, il
coltello di bronzo che aveva lasciato cadere prima. Mollò la spada,
riprese il coltello e lo infilò da destra nel collo tirato verso l'alto:
"per Murilo" pensò, lo affondò di nuovo: "per la mia donna" pensò,
infine sollevò la mano in alto per prendere slancio e piantò il coltello
nella nuca del re. Lo fece con tale forza che sentì lo scrocchiare
dell'osso del collo che si rompeva sotto il suo colpo: "per il mio
popolo" urlò nella propria testa.
Si alzò mentre sul viso gli colava sangue non suo. Le grida dei
cavalieri gli rimbombavano in testa e non le capiva bene ma, poco a
poco, le voci nelle sue orecchie si schiarirono e comprese: "re! re! re!
re! re! re! re!". Era scosso e quasi meccanicamente raccolse la
leggera corona sporca di sangue dal suolo. Quasi spinto dalla forza di
quelle grida entusiaste cominciò a salire i gradini che portavano al
trono e, giunto in cima, vi si sedette. Si mise in testa la corona e
pensò che, dopo tutto, avrebbe potuto vivere in quel luogo. "Re Nanòk,
il viaggio è finito".
Appendice. Il viaggio della rossa
"Vigliacco! Vigliacco!" gridava mentre seguiva le orme sulla neve,
"ti ritroverò e ti strapperò il cuore dal petto e berrò il tuo sangue
amaro di traditore". Ringraziò l'ultima neve che le aveva consentito di
seguire le tracce. Riuscì anche a vedere dove lui aveva passato la
notte: in un grosso vecchio tronco cavo. Doveva sbrigarsi però, la
primavera avanzava, non le le avrebbe più dato l'aiuto della neve.
Superare i passi era stato semplice, la tempesta del giorno prima aveva
lasciato il posto al sole e, protetta del mantello, non aveva sofferto
il freddo. La rabbia poi la spingeva, le dava energia, un'impulso simile
a quello che provava in battaglia, ma sapeva che non sarebbe stato
facile.
Arrivò al sud basso, vide la piana che si stendeva senza fine ed
ebbe l'unico tentennamento di tutto il suo inseguimento, perché oltre
quel confine geografico non aveva idea di cosa ci fosse. Sì, storie,
dicerie ma potevano essere tutte false o inventate da uomini che
cercavano attenzione.
Le avevano parlato di costruzioni gigantesche e di eserciti così
grandi e fitti da coprire le terre come fanno le foglie in autunno. Ma
la realtà era che non sapeva cosa aspettarsi. Fu solo un momento che non
poteva attardarsi.
Trovò orme sulla riva di un fiume impetuoso, in luoghi dove il
passaggio di persone era evidentemente raro. Potevano essere di chiunque
ma il cuore le diceva che erano del traditore, del vigliacco che era
fuggito. Le seguì e s’imbatté in tracce di fuochi accesi, di giacigli
fatti con erba e foglie, resti di pasti. Tutto indicava un solo uomo,
doveva essere lui. Valutò in circa due giorni il suo ritardo, basandosi
sull'aspetto delle orme nella vegetazione. Pensò anche di poterlo
raggiungere ma aveva bisogno di mangiare e dormire e in quella zona era
pieno di uccelli di fiume che potevano essere cacciati con l'arco. Così
perse tempo, comunque fiduciosa che lo avrebbe, prima o dopo, raggiunto.
Proseguì lungo il fiume che diventava, con suo disappunto, sempre
più largo e, a un certo punto, incontrò una staccionata che tagliava il
lungofiume e che la obbligò a piegare verso l'interno seguendone il
perimetro. Dentro quello steccato camminavano placidamente grandi
animali cornuti che mai aveva visto prima. Alla fine lo steccato la
portò a una abitazione fatta di sassi e con tetto, nei pressi della
quale un vecchio rigirava un grosso mucchio di erba secca. Come la vide,
il vecchio cominciò a urlare parole in una lingua che lei non conosceva
e le si parò contro con un bastone munito di due punte. Fu facile
deviare quell'arma improvvisata e aprire, con un fendente, il collo del
vecchio. Subito dopo comparvero due ragazze e una di esse si lanciò
contro di lei urlando con in mano una piccola accetta, solo per finire
impalata a morte; lasciò l'altra lì a piangere e proseguì.
Arrivò fino al mare e fu una vista che non avrebbe mai dimenticato
per il resto della vita. Intanto però non riusciva a passare il fiume e
il suo inseguimento era sull'orlo di fallire. Mentre scrutava la foce
alla propria sinistra vide con la coda dell'occhio una figura rivolta
verso il mare. Da dietro si vedeva chiaramente che era una vecchia
seduta; capelli bianchi e ondulati, con ancora qualche sfumatura ramata,
le scendevano sulla schiena lasciando visibili le spalle scarne. Era
completamente nuda e parlò nella lingua della sua gente: "se cerchi un
transito torna indietro e non abbandonare la riva del fiume. Troverai
un'ansa in cui il fiume raccoglie le cosa perse. Lì un grosso tronco ti
aspetta. Dovrai vincere la paura che noi abbiamo dell'acqua se vogliamo
avere vendetta".
La voce arrivava con un'eco come rimbalzasse su un'invisibile
ostacolo davanti alla vecchia, ma di fronte a quella non vi era nulla,
solo la vastità del mare.
Aveva sentito di streghe che comparivano dal nulla nei boschi e,
pur non avendone mai vista una, non indugiò oltre in quel luogo ma
mentre seguiva il consiglio della vecchia si chiese: "noi? Vogliamo?".
Trovò presto l'ansa del fiume in cui la corrente depositava le
cose, trovò anche il tronco ma dovette spostare diversi cadaveri di
predoni biondi del nord, tra i quali uno senza testa. Appesa al tronco
con le braccia e battendo i piedi riuscì ad attraversare il fiume ma
arrivò stremata e forse non sarebbe arrivata affatto non fosse stata per
l'alta marea che, invertendo temporaneamente la corrente, la aiutò a
raggiungere l'altra riva.
"In che direzione sarà andato?" pensò; c'era come una traccia da
seguire dentro la propria testa e si concentrò su quella. Non si poneva
molto il problema di cosa fosse: l'amore di un tempo ora si era
trasformato in un risentimento che la pervadeva. Lo sentiva nella bocca,
lo sentiva sotto le unghie e la guidava verso di lui. Così decise di
proseguire verso sud est.
Incontrò sempre più persone che la guardavano strano e il motivo le
fu presto chiaro: la sua prestanza e e sue vesti non erano usuali per
le donne di quelle parti. Fu spinta allora a viaggiare di notte per non
dare troppo nell'occhio e immaginò che il traditore vigliacco avesse
dovuto fare lo stesso visto il suo aspetto eccezionale per chi non fosse
avvezzo al colore della sua pelle.
Le sue intuizioni furono ripagate. Un giorno, poco dopo l'alba,
seguendo tracce fresche di un passaggio furtivo e notturno lo trovò che
dormiva protetto dalle fronde di una piccola e fitta macchia. Ce lo
aveva davanti inerme, come un bambino. Era quello che aveva desiderata
dalla partenza e pensò a come ucciderlo: svegliarlo o sgozzarlo nel
sonno? Piantargli una spada nel cuore o strappargli il membro e
lasciarlo morire per dissanguamento? Alla fine decise di non fare nulla;
liberò i capelli trattenuti nel nodo e ne strappò uno che lasciò appeso
a una frasca di fronte al viso di lui.
Seguirlo in quella vasta piana erbosa era complicato. Non c'erano
ripari e lui aveva messo da parte le precauzioni e si muoveva di giorno.
Inoltre c'erano quei grossi cani bianchi che avvertivano la presenza di
qualcuno da lontano e lei non voleva fungessero da allarme per lui,
quindi fu costretta a allungare il cammino per stare loro sottovento.
Così facendo rischiò di arrivare troppo tardi.
Mentre era ancora distante cominciò a sentire una mostruosa risata.
Non capiva se nelle orecchie o nella testa ma la stordiva, allora
cominciò a correre alla massima velocità che era nelle sue gambe e
arrivò appena in tempo. Lui era steso inerme al suolo e un uomo
fluttuante incombeva sopra di lui e rideva. Da dietro attraversò con la
spada il petto dell'uomo fluttuante ma questo non morì e non lo fece
neppure quando lui gli separò la testa dal capo e fuggì via. "Codardo",
pensò, "temi questo mostro o temi me?". L'uomo fluttuante era ora diviso
in un corpo, ancora fluttuante, e una testa posata al suolo che aveva
ripreso a ridere. Piantò la punta della spada nella testa trapassandola
da parte a parte e tutto si spense: il riso cessò e il corpo crollò al
suolo. Riprese il suo inseguimento.
Era facile individuarlo pur in quella lunga fila. Si era
accompagnato per tutto il tempo con un uomo vestito di colori vivaci che
trascinava con se un grosso animale (senza corna questa volta) e la
pelle nera lo faceva apparire come una macchia in quel serpente di
persone. Seguì il flusso finché anche lei fu dentro a bastioni così
grandi che la lasciarono senza fiato e poi si ritrovò davanti a un uomo
seduto di fronte a un tavolo che le fece delle domande in una lingua che
lei non capiva. L'uomo a un certo punto smise di parlare, trasferì del
colore con una penna di uccello su qualcosa simile a pelle di animale e
lei si ritrovò con questa cosa in mano senza sapere che fare e fu lì che
ebbe il secondo incontro.
Di fronte a lei, in piedi, di schiena, stava una bambina nuda. I
lunghi capelli rossi era raccolti in una treccia come era usanza per le
femmine del suo popolo prima di raggiungere la pubertà, dopo la quale
venivano fermati in un nodo in cima alla testa con aghi di osso. La
bambina la vedeva solo lei che tutti quegli uomini che andavano avanti e
indietro le passavano accanto senza notarla. A un certo punto la
bambina, sempre dandole la schiena parlò: "devi andare giù in fondo, a
sud troverai delle armerie. Combatterai la stessa guerra con lui e
dovrai salvarlo. Solo così avremo la nostra vendetta". Le parole
rimbombavano ma non c'era nulla di fronte alla bambina in mezzo a quello
slargo.
Passò oltre nella direzione indicata e cominciò a pensare che
questa cosa non riguardava più soltanto lei anche se non capiva come e
perché, ma ciò che aveva visto e sentito parlava di tanti e non di uno
solo.
Quando arrivò nell’armeria un uomo piccolo la squadrò, le disse
qualcosa e la fornì di una lancia, uno scudo tondo di metallo leggero e
un elmo. Poi se ne andò per un secondo e tornò con una corazza fatta con
spessi pezzi di cuoio ma le stava piccola dato che lei era più alta
della maggior parte degli uomini del sud. Allora l'uomo piccolo pensò un
attimo e tornò con una strana armatura bianca e leggera, sembrava fatta
dei tessuti cerimoniali del suo paese solo era più spessa e lasciava
libere braccia e gambe. La indossò e da quel momento seguì le persone
armate nel suo stesso modo fino a trovarsi, il giorno dopo, disposta in
fila in uno di quegli eserciti che non fanno veder la terra di cui aveva
sentito parlare nei racconti.
Lo cercava con lo sguardo. In quel mare di lance pensare di vederlo
le pareva impossibile ma più avanti un elmo spiccava sulla linea degli
altri: non poteva essere che lui. Poi successe di tutto ma lei tenne gli
occhi puntati su quell'elmo più in alto degli altri. Erano come legati
da una corda invisibile che poteva allungarsi ma non si spezzava mai e
alla fine li poneva sempre uno davanti all'altra. Riuscì a seguirlo
anche dietro la linea della cavalleria nemica e lo protesse quando si
lanciò, da solo, contro quaranta soldati nemici pesantemente armati;
sembrava volesse morire in quella battaglia.
Ma lui si gettava sempre più in profondità tra quei soldati con le
armature lucenti e lei fu costretta ad arretrare per difendere se
stessa. Lo vide inginocchiarsi per un colpo al costato, lo vide perdere
l’elmo e osservò, senza poter far nulla, un nemico alzare la spada per
finirlo. Ma la spada non calò perché una freccia si piantò nell'occhio
di quel nemico. Da dietro stavano arrivando molti soldati e tra questi
un arciere aveva scoccato quel colpo della salvezza. Da lì in poi tutto
finì in fretta.
Lo osannavano. Un vigliacco traditore come lui, che non aveva avuto
il coraggio di affrontarla ed era fuggito come un coniglio, veniva
acclamata da tutta quella gente. Non lo conoscevano, lo credevano un
eroe solo perché aveva buttato giù da un carro un vecchio che non era in
grado di difendersi. Le parole lei non le capiva ma il resto era
chiaro, quella gente era stupida e ingenua. La cosa le causò una rabbia
terribile che fece fatica a contenere in quella sfilata e quando
arrivarono e si sparsero tutti in un grande spiazzo decise che lo
avrebbe ucciso davanti a tutti. Erano tanti in quel posto e ci mise
parecchio per arrivargli alla schiena ma quando gli fu dietro tirò fuori
il coltello digrignando i denti e si preparò a piantarglielo tra le
costole. Ma si fermò quando comparve il re.
La sorpresa la bloccò: il re era uno del suo popolo. Non poteva
essere un caso. Lei era lì per un motivo. Credeva fosse una cosa che
riguardava solo loro due ma non era così. La fuga del suo uomo, il suo
inseguimento, il trovarsi ora lì, in quel luogo, tutti e tre vicini,
tutti e tre provenienti dalla stessa terra. Dimenticò per un attimo la
vendetta e rinfoderò il coltello ma quando si ruppero le righe non smise
dì inseguire l'eroe in giro per quello strano posto finché si persero
entrambi in quel labirinto di costruzioni e lì ebbe la seconda occasione
nello stesso giorno. Lo raggiunse da dietro subito dopo aver girato un
angolo e gli posò la lama del coltello sulla gola. Lui, quando avvertì
il freddo dell'arma, non disse nulla: allungò il collo e rilassò i
muscoli come per prepararsi alla morte e renderle le cose più facili.
"Di qualcosa", pensò lei, "implora o impreca traditore ma non il
silenzio" non arrivò nessuna parola. Lei ritirò il coltello e lui si
allontanò senza voltarsi.
Guardava il suolo, quel suolo così distante e così diverso da
quello della sua terra. Per cosa aveva fatto tutta quella strada? Per
una vendetta personale che non riusciva a compiere? O era un altro il
vero motivo?
Fu in quel momento che ebbe il terzo incontro: come alzò gli occhi,
di fronte a lei, di schiena, c'era una donna. I lunghi capelli rossi,
sciolti, arrivavano quasi al suolo e le spalle, pur aggraziate, erano
forti, di chi é abituato alla fatica e alla lotta. La donna parlò e la
sua voce rimbombava "sei qui per un motivo".
Tacque per un attimo e poi riprese: "più di trenta primavere fa, un
giovane ma già eccezionale guerriero del nostro popolo incontrò dei
mercanti che venivano da sud. Costoro gli fecero vedere una spada di
acciaio e gli mostrarono la forza di quell'arma: la sua spada di bronzo
si spezzò dopo pochi scambi dimostrativi. Il giovane guerriero ebbe
un’illuminazione e fuggì via solo per tornare presto carico di pelli di
animali. I mercanti apprezzarono moltissimo lo scambio e, oltre alla
spada, gli lasciarono come regalo un anello dello stesso materiale.
Il giovane non disse nulla ai suoi compagni perché voleva avere
quel beneficio solo per lui e tolse al suo popolo la possibilità di un
vantaggio decisivo nella guerra contro i pellenera. Le spade di acciaio
alla fine arrivarono ai nemici che le condivisero tra loro. Alla fine,
aiutati dalla forza dell'acciaio, i pellenera spinsero noi rossi ancora
più a nord, dove i lupi sono grandi come cervi e dove l'inverno dura
quasi tutto l'anno. Per cercare di recuperare lo svantaggio anche noi
donne da quel momento, imparammo a combattere e morire in guerra. Ma
ormai era tardi e il disastro insanabile: il giovane guerriero egoista
aveva condannato il suo popolo; il traditore fuggì al termine di un
inverno, pieno di vergogna, dirigendosi verso sud...", la donna fece una
pausa, "...e divenne re".
Poi continuò: "il tuo uomo ci serve vivo. Perché lui compierà la nostra vendetta. Un traditore per uccidere un traditore"
"Un traditore per uccidere un traditore" ripetè lei e tutto le fu chiaro.
A quel punto la donna si girò e lei si trovò di fronte a se stessa.
La voce della donne smise di avere un'eco e divenne netta e limpida, divenne la stessa di lei.
"Mancano ancora due cose", proseguì la donna, "un nome e un
sacrificio. Dammi i tuoi vestiti e gli aghi di osso che ti tengono i
capelli". Così lei fece e le parti si invertono.
"Ora nessuno potrà vederti. Dammi il nome che mi serve".
"Nanòk" rispose lei.
Le strane usanze del sud prevedevano che il corpo del re sconfitto
venisse gettato dai bastioni più alti delle mura, fuori da quel grande
villaggio. Lei era lì sotto ad attendere. Tagliò il dito recante
l'anello di ferro e ripartì verso nord, per tornare alla propria terra.
Durante il viaggio rubò vesti che la resero, in un primo momento,
irriconoscibile quando giunse infine nella sua terra. Ma poi, di fronte
agli anziani, mostrò l'anello di acciaio del grande traditore. Fu una
liberazione per il suo popolo, la speranza di una rinascita.
Fu acclamata re: la prima donna tra la sua gente.
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