Era una mattina serena di un giorno di scuola di fine inverno. Le 8 circa. Ero salito in bicicletta che ancora rimuginavo su brandelli di sogni non del tutto svaporati. Fuori dal garage, poi sentiero erboso verso il retro della casa.
Sì perchè abitavo a Roncadello, ma non Roncadello centro, Roncadello aperta campagna e c'era da sgambare solo per raggiungere un'edicola o andare a scuola.
Tenevo gli occhi stretti istintivamente per il freddo. La visione era limitata dalla la fessura del passamontagna, dalle lacrime e dagli occhiali che si appannavano con l'affanno di pedalare; comunque per procedere bastava cogliere lo stretto indispensabile, il margine del campo, quello del fosso, tanto era un percorso che conoscevo a memoria.
Giunsi ad un punto in cui il fondo della calera era tutto ruvido e disconnesso perché nei giorni precedenti un trattore era uscito dal margine dal campo ed aveva affondato i cingoli nell'argilla morbida. L'argilla si era indurita col freddo della notte ed aveva creato delle mini-dune, rigide come sassi di porfido, che a passarci sopra il campanello della bici tintinnava e ballavano gli occhiali. Dal sellino si propagavano onde d'urto verso l'osso sacro fino ai denti (rattle rattle) rendendo palese l'esistenza di uno scheletro all'interno del mio corpo.
Dopo quell'improvviso trattamento energico potevo dirmi certamente sveglio. Per attutire provavo a spostarmi con le ruote sopra i cespugli d'erba scricchiolanti di brina laterali, ma così la fatica della pedalata aumentava e c'era pure il rischio di scivolare.
Oramai avevo superato l'alberone, il piccolo canneto acquitrinoso e la curva erbosa con la catasta di legna. Giunsi all'imbocco della via Minarda, una strada asfaltata non molto larga ma perfettamente rettilinea e lievemente rialzata rispetto alla superficie dei campi circostanti.
A quel punto il mio percorso proseguiva ad angolo retto verso nord-est fino all'incrocio con la via XIII Novembre. Finalmente la pedalata si faceva più liscia e meno faticosa.
Spesso in quel tratto praticavo gli scongiuri anti-interrogazione oppure gridavo alla campagna circostante la solfa iniziale dell'ora di francese.
Aujourd'hui, mercredi quatorze mars, dix-neuf cent soixante-dix-neuf.
Nous sommes en hiver!
In prossimità della svolta che mi avrebbe indirizzato verso le scuole medie di Villafranca notai qualcosa sul margine della strada. La prima impressione fu che avessero investito ed ucciso qualche pennuto: un pollo gigante o... che ne sò... il frutto di un allevamento pionieristico di struzzi (se mai fosse esistito lì a cavallo tra le frazioni di Roncadello e Branzolino).
Mi avvicinai pedalando più in fretta per osservare l'anomalia che era visibile sull'angolo del campo sotto il quale il fossato si interrava, passava sotto la via XIII Novembre per poi riemergere lungo la Minarda proseguendo verso Ravenna. C'erano piume bianche che coprivano ceneri ancora fumanti.
Quello che avevo notato da lontano era in effetti il residuo di un rogo sparso per qualche metro quadrato. Qualcuno durante la notte aveva bruciato un materasso, coperte imbottite di materiale lanoso ed alcuni cuscini di piume. Strana l'idea di disfarsi del corredo della camera da letto in quel modo, pensai, e soprattutto in una posizione così esposta al passaggio; i contadini della zona avrebbero agito diversamente, c'era certo lo zampino di gente venuta da fuori. Un cittadino probabilmente, ed anche uno di quelli strambi...
Ma perché proprio in quel punto? Gli unici avvenimenti di rilievo collegati a quella croce d'asfalto tra i campi, erano a memoria solamente disgrazie causate dalla velocità e dalla disattenzione. Ragazzini in motore che non rispettavano lo stop, ciclisti anziani troppo presi dalle loro perlustrazioni di caccia che venivano centrati dalle auto provenienti in senso opposto sulla corsia di sorpasso.
Guardai i cartelli stradali (S.TOME 3, VILLAFRANCA 2, FILETTO 5) e l'occhio arancione sempre attivo del segnalatore luminoso, sospeso proprio al centro dell'incrocio. Tutto come sempre.
Mi mi riscaldai il naso soffiando dalla bocca aria calda e umida verso l'alto e proseguii come sempre voltando a sinistra verso le scuole.
Quatorz marz... suasson-disnèv!
Stacco. Cinque ore dopo ero di nuovo a casa.
«Ma dove?» Mio nonno a pranzo aveva preso la cosa abbastanza seriamente e sembrava allarmato. «Sulla Minarda? Nell'incrocio della Borra?»
Era saltato fuori che quel luogo aveva addirittura un nome. La Borra. E cruseri d'la Bora. Era la prima volta che lo sentivo.
«Sì, c'era un mucchio di piume bruciate ed altre cose che sembravano cuscini e materassi. Ma chi è sto scemo che va a bruciare in giro 'ste cose, come se non avesse il bidone a casa sua...»
«No, non è uno scemo... è peggio. Sono cose... brutte. C'è chi crede a delle cose che non esistono. E' ignoranza. Lascia perdere.»
E fu tutto. Mio nonno Armando chiuse così il discorso senza altre spiegazioni. Per lui c'erano cose da ricordare, quelle reali e concrete che colpivano tutti alla luce del sole della ragione. La guerra per esempio. Di queste valeva la pena parlarne, per non perdere la memoria ed evitare di ripetere gli stessi errori; quel tipo di impazzimento che aveva contagiato molta gente ed i governanti. La pace, la serenità ed il benessere erano conseguenze di un ragionamento logico. Invece questa faccenda dell'incrocio era proprio una di quelle cose da lasciar perdere.
Ovviamente questa chiusura aumentò la mia curiosità. A undici anni si è affamati di mistero. Mi venne subito in mente che quel pomeriggio avrei potuto interpellare un contraltare di mio nonno (che era un laico repubblicano romagnolo) cioè l'autorità locale in fatti trascendenti, un esperto - certo un po' di parte - ma che proprio per questo non si sarebbe tirato indietro. Parlo ovviamente del prete di Roncadello, don Varo.
Stacco. Due ore dopo, chiesa di Roncadello.
«La via Minarda è una strada veramente antica, risale addirittura alla centuriazione romana. E' il cardine meglio conservato di tutta la zona di Forlì. Lo si capisce se lo guardi in una cartina: perfettamente diritto per chilometri, perfettamente in squadro con la via Emilia...»
Don Varo la stava prendendo alla larga. Nella mia testa erano le strade moderne a dover essere lunghe e dritte per fare scorrere velocemente i camion e gli autoarticolati; quelle più antiche dovevano essere come quelle nelle illustrazioni delle fiabe: tortuose e piene di curve... che tanto ci dovevano andare coi muli e coi cavalli... giusto?
«E invece no. Quando i romani arrivarono qui, più di duemila anni fa, cambiarono tutto. Fecero delle bonifiche per eliminare per quanto possibile le paludi, cambiarono il corso dei fiumi e tracciarono una rete di strade perpendicolari, lunghe e dritte. Li chiamavano cardini e decumani. La via Minarda è un cardine e l'ultima parte della via XIII Novembre, quella che porta a Villafranca, passa su di un antico decumano. Quindi se ci pensi bene quell'incrocio esiste in qualche modo da più di duemila anni.»
«Sì, ma questo cosa c'entra con bruciare i materassi?»
Sapevo che don Varo poteva essere più avvincente di così.
«E allora ti spiego quel che vuoi sapere...» disse abbassando il tono «Non sei più un bambino e puoi conoscere questo genere di cose. » I suoi occhi chiarissimi e quasi senza ciglia si appuntirono, annegati dietro alle lenti spesse. «Ci sono persone lontane da Dio che chiedono aiuto al diavolo per arrecare male a quelli che odiano o semplicemente a quelli che considerano ostacoli sulla loro strada. Per questo motivo cercano di sistemare degli oggetti pericolosi nei posti più vicini alla persona che vogliono colpire, dentro ai materassi, dentro ai cuscini... E' successo tante volte, anche nella nostra zona, vicino a Roncadello!»
Ecco, il brivido che cercavo stava arrivando.
«... succede ogni tanto. Qualcuno comincia a soffrire di malattie... strane ed inspiegabili che i dottori non sanno curare. Allora i parenti si preoccupano e si mettono a cercare... e spesso trovano qualcosa. Dentro al cuscino... penne annodate a creare forme strane, corde che assomigliano a rosari tutti aggrovigliati, oggetti di cera o di legno annerito... croci...»
La mia attenzione era totale, tanto che avevo trascurato di deglutire e stavo accumulando una quantità copiosa di saliva.
«Se ti capita questo, vuol dire che c'è qualcuno che ti vuol male e che ha pagato una persona malvagia per procurartelo. Hai voglia di togliere l'oggetto… non è sufficiente. Si riforma di nuovo. Perché lo spirito maligno ti tiene stretto e non ti abbandona. E allora devi soltanto rivolgerti alla Sacra Romana Chiesa, ai suoi riti e ai suoi sacramenti!»
Ovviamente... ricevuto! Confermai con un cenno remissivo del capo. I preti da sempre disapprovano il fai da te.
«C'è anche chi decide di proseguire a sua volta per la via del demonio e si rivolge ad un'altra persona che fa queste pratiche per rovesciare il male contro chi l'ha mandato. Ma questa non è una cosa da cristiani, questa è una strada che porta alla perdizione, quelli là di sotto non aspettano altro!
Vidi un lampo di divertimento negli occhi di don Varo. Doveva aver notato che diventavo sempre più pensieroso. In realtà stavo valutando i vicini, i genitori e gli zii dei miei amici... forse ce n'era qualcuno insospettabile che invece armeggiava con intenzioni sinistre. Anche tra i parrocchiani, quelli che vedevo la domenica mattina, alla messa... certe facce un po' così che non mi avevano mai convinto.
«...e per rispondere alla tua domanda... chi crede in queste fatture crede anche all'esistenza di luoghi particolari, senza ostacoli in cui gli spiriti sono liberi di correre in tutte le direzioni, come in certi incroci... Ed proprio lì che vanno, pensando di potersi liberare di quelle maledizioni, bruciandole e disperdendole ai quattro venti. Ecco secondo me quello che hai visto: l'opera di qualcuno che credeva in queste cose!»
Eravamo sul piazzale davanti alla chiesa e stava ascoltando pure Matteo, mio compagno di banco e di avventure immaginarie sin dal tempo delle elementari.
Ascoltò ogni dettaglio mostrando più impazienza che meraviglia, come se stesse attendendo il suo turno per rilanciare con qualche cosa di grosso; invece quando don Varo se ne andò cambiò totalemnte argomento.
«Scusa... ma cosa c'è... una ricerca da fare per domani... sulle piante, per la Bargossi?»
«Sì, sulle dicotiledoni. Per l'erbario.»
Ma come - pensavo - i compiti in quel momento? Stava negandomi un dibattito succosissimo sulla mia questione del momento e quindi lo incalzai.
«Ma senti Matteo, secondo te... quelle sono cose proprio vere... vere?»
«Cosa, le maledizioni nei cuscini? Sì, certo che sono vere! E tu sei stato proprio uno scemo oggi, che sei andato via senza far niente! Non potevi frugare e guardare lì in mezzo se era rimasto qualcosa?»
Più tardi, quando era ora di tornare a casa e si stava facendo buio mi raccontò l’episodio inquietante che che gli frullava in testa sin dall'inizio.
Era coinvolta una sua cugina di Ravenna ed una bambolina di pezza parecchio malevola che la perseguitava! Per fornire maggiore sostanza al racconto disse che la stessa cosa pari pari era stata mostrata in un telefilm di storie della paura. Quest'ultimo ricorso alla fiction però non mi impressionò.
«Mah, io non so... per me sono tutte... invenzioni. Io una magia vera con i miei occhi non l'ho proprio mai vista.»
«Non ci credi? Ma allora tu non credi! Allora sei un ateo, ateo! Non puoi neanche entrare in chiesa! Lo vado subito a dire a don Varo!»
E corse via ridendo fingendo di dovere sfuggire ad un mio tentativo di metterlo a tacere.
«No che non ci credo, scemo. Ma adesso è meglio andare a casa, che se si fa buio mentre sono in bicicletta... mi cago addosso!»
«Effeminato!»
E giù a ridere tutti e due come cretini.
Mi infilai il passamontagna e feci scattare la dinamo sulla ruota della bicicletta.
«Metti su la luce a quest'ora? Ma allora sei proprio un effeminato!»
«Ma falla finita! Facile parlare per te, che abiti qui vicino; io ho della strada pericolosa da fare!»
«Ed invece adesso lo sai cosa facciamo? Non andiamo a casa. Andiamo tutti e due lì nell'incrocio ad indagare! Dai, prima che sia completamente buio! Magari possiamo trovare indizi per scoprire chi è stato! ...e poi così vedi anche tu una cosa vera con i tuoi occhi!»
Da solo non ci avrei mai pensato, ma quell'avventura affrontata così in compagnia mi sembrò allettante. C'era anche una sfida da raccogliere con Matteo, che dopo tutto avrebbe giocato fuori casa. Volevo proprio vedere se quella sua spavalderia da parrocchia avrebbe retto anche tra le ombre della campagna totale da cui provenivo e in cui ero immerso tutte le notti.
E fu così che le dicotiledoni rimasero ad aspettare e noi partimmo a perderci nel buio.
Continua su BOR Capitolo 2 Il Curvone di Valentini
Si dice che per trovare il Diavolo bisogna andare ad un incrocio ed aspettare. egli prima o poi appare, magari suonando un pallido blues su una chitarra malmessa. agli incroci e' facile che l'anima perda la sua direzione, e scivoli via, che nemmeno te ne accorgi...
RispondiEliminaaspetto il seguito:) l'ho letto bene e volentieri, qualche imprecisione, poche davvero. (ad esempio si dice catasta di legna, non di legno, prob una svista), ma lo dico solo per inutile puntiglio. comunque se vuoi ti presto la mia editor:) e' brava e costa poco). d'altronde ora che ci abbiamo preso gusto, e' naturale mirare sempre piu' in alto.
Giustissimo! Ho già corretto. Continua a vegliare e beccami tutte le imprecisioni,se non sono troppe. Grazie!
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