Erano quasi le sei e mezza di sera. Matteo ed io avremmo dovuto essere a casa a lavorare sulla ricerca sulle dicotiledoni per la Bargossi, la temibile insegnante di matematica e scienze naturali della sezione F della scuola media di Villafranca. Ed invece stavamo lì, fermi, affiancati sulle nostre bici, a poche pedalate dall’incrocio della Borra, un segno geometrico sulla mappa della campagna forlivese nella frazione di Branzolino.
La nostra investigazione sulle attività della sera precedente, probabilmente un rito misterioso, empio e sacrilego, era intralciata dalla presenza sul luogo di un estraneo e non sapevamo come procedere.
«Guarda che secondo me ci ha visti!» pensai fosse necessario precisare a Matteo che frugava nervosamente nel suo zainetto per reprimere il disappunto.
«Lo so, continua a guardarci anche adesso. Prima stava piegato proprio sull'angolo del fosso e poi si è alzato di colpo... questa è una cosa molto sospetta!»
«E se fosse il maniacossessuale? »
Non era un'idea troppo strana, già da mesi si aggirava nei paraggi un tizio di poche parole ma parecchio dinamico. La sua missione era quella di sbalordire le bambine locali, anche se fino a quel momento si era imbattuto in esemplari scarsamente impressionabili. Una nostra compagna di classe aveva dimostrato una gran presenza di spirito ed aveva reagito cercando in tutti i modi di colpirlo nell’orgoglio.
«Figurati, il maniacossessuale gira d’estate e va dietro alle femmine, non ai maschi! E comunque che ci provi quello a tirare fuori il pistolino… io glielo taglio!»
Un’auto stava procedendo da Villafranca verso di noi. Quando fu vicina non abbassò i fari e ci costrinse a girare la testa e proteggerci gli occhi con le mani.
«Gli abbaglianti! Coglione!»
Vedemmo per qualche secondo il vapore denso che usciva dai nostri passamontagna mentre eravamo illuminati in pieno, inermi. Ci stringemmo di più sul margine della strada. Tornata la semioscurità del tramonto ritrovammo l’uomo nello stesso punto di prima, proprio sotto la luce gialla dei quattro lampioni posti sugli angoli dell’incrocio.
«Cavolo, se questo qui non se ne va dovremo tornare indietro…»
«Sei scemo? Arrenderci? Scappare via come due cagoni?»
A me non sembrava una vergogna, il problema era che per il mio amico la ritirata non era un'idea molto digeribile.
«Massì dai, tiriamo dritto per la via XIII Novembre. Gli passiamo davanti e facciamo finta di non averlo neanche visto. Anzi no, aspetta, senti! Giriamo qui a destra, sulla Minarda, e torniamo indietro con calma senza dare nell’occhio!»
«Ma dove? Di là?!»
Indicò stizzito la direzione verso Ravenna.
«Sì, andiamo avanti di lì e più avanti c'è una strada che porta verso la chiesa di Branzolino, poi voltiamo e poi...»
«E poi visto che è notte ci perdiamo nel buio in mezzo ai campi; e poi… va a cagare, vai!»
Il punto era che Matteo si era affezionato alla sua avventura e quel personaggio misterioso era entrato a pieno titolo nella sua indagine.
«E invece lo sai che ti dico, voltiamo proprio lì da lui. Se fa qualcosa di losco sarà ben lui a doversi preoccupare! Ma io sono sicuro che si toglie, non vedi? E’ un vecchio! Avrà quasi cinquant'anni.»
Ok, ragioniamo con calma, mi dissi, tutta 'sta paura per cosa? Tutta colpa dei racconti di don Varo che alla fine sono solo sistemi per renderci timorosi e quindi più devoti.
«Va bene... dai muoviamoci allora!»
Da quel punto bastavano due pedalate per raggiungere l'incrocio. Guardammo la strada con attenzione e voltammo a sinistra. Notai che del rogo visto quella mattina non era praticamente rimasta traccia; qualcuno doveva aver ripulito con cura. Stesa sul ciglio della strada c'era una bicicletta da uomo piuttosto malridotta con un portapacchi sul quale era stata stretta con alcuni lacci una piccola borsa di pelle. L'uomo del mistero si rivelò essere un signore piuttosto alto e corpulento con una giacca a vento ed un berretto di lana scura sotto al quale sbucava un faccione bonario tutto sommato rassicurante. Quando fummo vicini si mosse velocemente e ci si parò davanti, impedendoci di proseguire.
«Oh, meno male! Ragazzi... potete darmi una mano?»
La destra di Matteo sfiorò veloce lo zaino pieno di armi ninja.
«Sono qui da un po' ma così da solo non riesco a combinare niente Mentre passavo ho sentito qualcosa... come se piangesse; da quella parte… mi sembra...» ed indicò proprio l’angolo di campo dell’incrocio sul quale eravamo venuti ad indagare.
«Deve essere un gattino appena nato che è stato abbandonato! Avevo un gatto, una volta ed era stato abbandonato proprio da queste parti, in mezzo ai campi!»
Non ero stato capace di trattenermi, si era parlato di Guantino proprio dieci minuti prima.
«Ah, ma di sicuro!» la voce dell'uomo si era fatta più ferma «Non c'è mica da meravigliarsi, la gente pensa che sia facile per gli animali restare vivi in campagna... così quando si vuole sbarazzare di una figliata di gattini viene qua e li butta nei fossi! Li libera nella natura, dice... tipo Nata Libera! Invece non fa altro che lasciarli morire di freddo e di fame! Se la raccontano in questo modo...»
«...Ma meno male che siete passati voi due! Dai, cerchiamolo, che quattro occhi giovani sono meglio di due occhi oramai un po' spenti!»
Scendemmo dalle nostre bici e le lasciammo in bilico sui loro cavalletti sul bordo erboso della strada.
«Io ho qui nello zaino una torcia super-professionale che è proprio quello che ci serve!» disse Matteo ed estrasse la piccola torcia a pile, accendendogliela proprio in faccia; l'uomo si coprì il viso, abbagliato, con una smorfia di dolore, come se la luce gli ferisse gli occhi più del normale. O così mi sembrò.
«Allora, dove è che dobbiamo guardare?»
L'uomo ci indicò il fossato piuttosto profondo che costeggiava la Minarda, un ambiente poco invitante, pieno di erbacce grigie ed intrecciate che anche di giorno non permettevano di vedere se in fondo scorresse l'acqua o meno.
Matteo iniziò a perlustrarlo con la torcia con aria grave e l'altro gli si accostò incurvandosi e stringendo gli occhi. Io rimasi qualche passo indietro a guardarmi attorno e a controllare la situazione. La ricerca sembrava difficoltosa, la luce artificiale illuminava solo pochi dettagli e gettava su tutto il resto ombre impenetrabili.
«Però ora non sente più miagolare» buttai lì casualmente dopo qualche istante.
«Sì, è vero, l'ho sentito una volta sola» ammise il tipo «probabilmente è molto piccolo, quando si è accorto della presenza di qualcuno si è impaurito. Mi sa che dovremo recuperarlo prendendolo di peso» e allungò le mani verso Matteo come per prendere la torcia.
«Ma che bella... veramente! Puoi darmela, che provo a scendere dentro?»
Il mio amico, gelosissimo del suo gioiello tecnologico, si oppose con forza.
«Eh no! Questa deve stare con me!» e dopo una breve riflessione: «Piuttosto scendo io!»
«Ma dai, sei sicuro Matteo?»
L'uomo si voltò verso di me e alzò le braccia come per dire se è quello che vuole.
Il mio compagno di banco scese nel fosso con lo zaino sulla schiena e la piccola torcia tra i denti. Senza esitazioni, pur rischiando di infangare i suoi pantaloni di velluto a coste e di bagnare i suoi scarponcini; lui, sempre così attento alla salvaguardia dei suoi effetti personali. Questa sua negligenza mi apparì insolita e per la prima volta mi chiesi se l'uomo non ci stesse in qualche modo confondendo le idee.
«Arrivato! Meno male non c'è l'acqua, è soltanto un po' umido e abbastanza... merdoso.»
No, non era strano, mi rassicurai; lui adorava tutto quel genere di imprese para-militari. Però quella manovra ci aveva separati ed io mi trovavo sulla strada assieme ad un adulto sconosciuto. Non potei fare a meno di irrigidirmi e di essere raggiunto dalla paralisi della timidezza. Sentii nella testa l'ordine di mia mamma che diceva che dovevo essere un po' educato. «Ma adesso non sono capace, mamma» Sforzati! «No, non me la sento» S'et paura? Ad che?!!
Mia mamma anche in forma di demone mentale non riusciva a capirmi fino in fondo. A volte il mio cervello si bloccava senza un valido motivo e le parole diventavano faticosissime. «Cose che capitano quando si è bambini» mi raccontavo «poi da grandi scompaiono. Di sicuro. Nell'attesa devo solo nascondere il problema meglio che si può.»
Sollevai quindi il passamontagna fino alle tempie per mostrare il viso e sembrare il più possibile tranquillo ed amichevole e feci la prima domanda che mi venne in mente.
«Lei è di qui vicino?»
L’uomo sorrise e prima di rispondere fece una breve pausa come per soppesare ciò che era opportuno dire.
«Una volta sì, abitavo qui vicino, molto vicino. Mi ricordo come era da queste parti, prima della guerra, quando avevo più o meno la vostra età. C'erano dei Padroni che comandavano, facevano paura, la rovina e anche la fortuna. Anche adesso ogni tanto ci ritorno ma vedo quanto è diverso da allora. E ancora non smette, non ha ancora finito di cambiare... Altri Padroni stanno arrivando.»
Se quella era una risposta a tono io non l'avevo capita. Proseguì allontanandosi ancora di più dalla mia domanda.
«ma quello che mi fa più ridere... è che nessuno se ne accorge. Pensa ad altro, perché lo sai, è così che funziona la nostra testa: quello che vedi tutti i giorni finisce per non dirti più niente, e se anche c'è gente che si ricorda piano pianino smette di essere ascoltata dagli altri che hanno cose a cui pensare... e poi un po' alla volta se ne vanno. E non resta più niente. Per esempio, tu abiti da queste parti ma nessuno ti avrà detto che anche questo incrocio, che sembra non abbia niente da dire, ha un nome particolare…»
Ricordai quello pronunciato da mio nonno quel pomeriggio.
«La Borra...?»
«Ah lo sai allora! La Borra. Ma sai perché si chiama così, che cosa vuol dire la parola?»
Era proprio una strana combinazione, ancora quel nome, sempre nello stesso giorno! Ma prima che potessi rispondergli fummo interrotti dalla voce di Matteo.
«Qui non si trova niente! Signore, deve aver sentito male, magari è stata quella sua bicicletta scassata che ha cigolato... e poi non mi piace stare qui dentro, coi serpenti e le bisce che possono esserci!»
Lo sconosciuto sembrò disturbato dall’interruzione.
«Ma come, tu che sei quello più sveglio, non lo sai che in inverno i serpenti sono in letargo?»
Io, quello meno sveglio - questo era quello che mi ero guadagnato malgrado tutti i miei sforzi per socializzare - non avevo idea se i serpenti fossero o meno in letargo in quella stagione. Il mio amico comunque prese per buone le parole dell'uomo e senza ribattere riprese a scandagliare il fondo del fosso.
«Stavamo parlando di questo nome: la Borra. Pare che derivi dal nome di una pianta, quella che un tempo veniva chiamata erba borra o erba borrana e che è comunemente nota come borraggine selvatica. Ce ne era proprio tanta da queste parti.»
Erbe - Erbario - Bargossi. Mi trattenni dal chiedere se gli risultasse che quelle piante fossero dicotiledoni.
«E c’era un motivo per tutta quell'abbondanza. Proprio in questa zona scorreva l'antichissimo corso del Montone, una divinità acquatica molto rabbiosa che i celti chiamavano Vitis . Fu domato in parte dai romani ed il lavoro di bonifica continuò anche durante il medioevo. Alcuni dicono che il racconto tradizionale sul nostro patrono, san Mercuriale ed il drago, si riferisca proprio a questi lavori di bonifica, anche se l’opinione prevalente su quella storia è che alluda alla sua battaglia contro l’eresia di Ario che negava la santissima trinità o contro le tradizioni pagane precristiane che si erano conservate, serpeggianti, in queste campagne. O chissà… magari da queste parti c’era veramente un rettile immondo da stanare!»
Allargò le braccia, un gesto che mi indusse a controllare l'incrocio con lo sguardo.
«In ogni caso in queste zone si sono sempre verificate nei corso dei secoli fiumane ed esondazioni dopo le quali tutta questa zona si riempiva di borrane, cioè raccolte di acque stagnanti e di fango, un fango propizio alla crescita di quell’erba che poi ne ha preso il nome. Quindi La Borra potrebbe stare per luogo in cui cresce copiosa la borragine, oppure più semplicemente per la palude.»
Il tizio parlava come se stesse leggendo da una enciclopedia ed era evidente che la preoccupazione per la sorte dell’ipotetico gatto era passata in secondo piano; ma tanto c'era Matteo che se ne stava occupando ed io stesso mi stavo sempre più interessando a quello che mi veniva raccontato.
«Se l’origine del nome fosse quella acquatica, la radice sarebbe celtica: “Bor” o“Bour” che significa appunto acqua. Di questa parola si può trovare traccia in tutta Europa; solitamente è associata ai nomi di luoghi vicini a fosse profonde, cavità, depositi di acque stagnanti ma anche acque termali, ribollenti. Ma questa è solo una delle possibili interpretazioni…»
Dal fosso si sentì una cantilena sgraziata. Era Matteo che ci voleva interrompere con la sua versione della sigla dell'almanacco del giorno dopo.
«Sentite voi due lì in alto, non capisco quello che dite ma so solo che qui, nel fosso, non c’è nessun gattino e che mi sono veramente rotto! Tiratemi su che voglio uscire da questo pantanaio marcio che poi è anche ora tornare a casa! Voi continuate pure da soli, se volete!»
Aveva appoggiato entrambe le mani sul bordo e puntava gli scarponcini sull’argine per salire. L’uomo lo guardò silenzioso, senza muoversi. A me sembrò di ravvisare il suo solito atteggiamento, quello di chi vuole sempre e comunque condurre i giochi a suo piacimento. Prima aveva voluto immischiarsi a tutti i costi, ora che le cose erano interessanti voleva chiudere la faccenda così su due piedi! Ma che rimanesse dentro al fosso a macerare nel fango per un altro po’ di tempo!
Proprio in quel momento sentimmo il rumore di un motore, quello di un’utilitaria proveniente da Villafranca che stava per passare lungo la via XIII Novembre. L’uomo si irrigidì mentre le luci dei fari gli illuminarono la schiena e rimase immobile, a parte una lieve torsione del capo in direzione opposta all’auto come se non volesse farsi riconoscere. L’auto sembrò rallentare come per controllare quello che stava succedendo ma poi riprese il suo percorso verso Branzolino. Solo quando fu definitivamente lontana l’uomo si mosse e fece un passo verso Matteo. Ora la sua voce era più secca ed ogni traccia di bonarietà o di ironia era scomparsa.
«Non ho capito tutta questa fretta improvvisa. Manca ancora un ultimo controllo prima di arrendersi. Hai mica guardato lì dentro?»
Nella direzione in cui indicava, in prossimità dell'incrocio, il fosso scompariva sotto il manto stradale. Per far scorrere l'acqua di scolo da un lato all'altro era stata posto un largo condotto di cemento e tra i cespugli si intravvedeva la sua apertura, un cerchio nero di circa mezzo metro di diametro.
«Lì dentro?» chiese Matteo con la voce meno ferma del solito.
«Sì, lì dentro. Per sicurezza ci dovresti entrare, secondo me»
E continuò con quello che mi pareva a tutti gli effetti un ordine.
«Mammi lo zaino, devi togliertelo altrimenti non ci passi. Non ti serve nient’altro che la tua fantastica torcia.»
Il mio amico non rispose, immaginavo che volesse dimostrare di essere in grado di affrontare anche quella sfida, ma per la prima volta lo vedevo bloccato, come se avesse avuto un presentimento.
Era la mia opportunità per fare qualcosa di utile. Di dimostrare quello che valevo, senza nessuna prepotenza, ma con un elegante sorpasso su Matteo all'ultimo minuto. Quale pericolo poteva esserci per me, dopotutto giocavo in casa... abitavo a meno di un chilometro! Era molto più facile che iniziare un discorso con uno sconosciuto.
«Da questo incrocio ci sarò passato mille volte. Dai, dammela, che ci vado io...»
Matteo esitò un attimo, sembrò considerare la mia proposta ma poi reagì in un modo che avrei dovuto prevedere.
«Col cavolo! Tu me la perdi, là dentro!»
Detto questo sembrò ritrovare determinazione e guardò quel buco come per prenderne le misure. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo appoggiò contro la base di cemento del lampione sul margine opposto del fosso. Si abbassò, appoggiò le mani sul fondo e senza dire una sola parola scomparve con la sua torcia oramai scarica dentro a quel condotto buio che sembrava un enorme nido di ragno.
Gli avevo solamente dato l’ultima spinta. Mi voltai verso l’uomo cercando un cenno di approvazione nella sua espressione che non trovai.
«Il tuo amico ti ha lasciato solo, con me»
Le luci dei lampioni sopra all’incrocio cominciarono a ticchettare come vecchi neon esauriti, poi ad affievolirsi gradualmente. Ed intanto il segnalatore di pericolo sospeso sull’incrocio si spegneva e riattivava velocissimo, come impazzito. Il sole era completamente tramontato, la luce della torcia scomparsa e tutto ciò che permetteva di orientarsi era la luce giallognola dell’illuminazione pubblica in lontananza e ad ovest, poco sopra la linea delle colline dell’Appennino, la fissità bianca di una luna piena nascente.
Continua su BOR Capitolo 4
U l'à ciapê int e' lazz la vëcia striga,
e Tirindël e' va cun e' su' guai,
pôr piligren, s-ciantê da la fadiga
par meja e meja ch'u u n' s' aferma mai.
Da "A Trebb" (A. Spallicci)
Da "A Trebb" (A. Spallicci)
Brivido! La foto con le case al tramonto e le finestre luccicanti come occhi fa paura..aspetto speranzoso un degno finale
RispondiEliminabello! aspetto anch'io
RispondiEliminaGrazie ragazzi. Ci provo.
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