STORIE DA UN ALTRO UNIVERSO
SECONDA STORIA
UNA STORIA PICCOLA, PICCOLA
Guardo la mano che galleggia davanti ai miei occhi, agita nell'aria cinque vermicelli pallidi che sembrano avere vita propria e si muovono come per attirare la mia attenzione. In mezzo al loro candore vedo spiccare alcune piccole macchie di un vivido colore rosso che brilla colpito dalla luce del lampadario.
Mi pare di sentire una voce.
Guarda cosa hai fatto!
Obbedisco e guardo.
Rabbrividisco al pensiero di quello che le macchie rappresentano e che le dita sembra vogliano ricordarmi.
Come se ce ne fosse bisogno.
Io ricordo tutto, perfettamente.
Buongiorno, dottore! Come va?
Frase pericolosissima ma necessaria. Si chiamava “mettere a proprio agio” e faceva parte della prima parte del rito della cosiddetta intervista, quella che facevo giornalmente ai miei clienti medici.
Le loro reazioni di solito erano di due tipi: qualche frettolosa frase di circostanza, come ad esempio:
Sì, sì, tutto bene, mi dica...
oppure l'inizio di uno sfogo, articolato e interminabile:
Male, malissimo, ora le racconto...
In questa lotta senza fine tra due necessità, la mia di farmi ascoltare e la loro di trovare un minuto di pace dall'ansia quotidiana, eravamo ovviamente noi, gli ospiti spesso solo sopportati, a dover fare un passo indietro con pazienza e rassegnazione.
La nostra non era gentilezza o umana comprensione, ma semplice e opportunistico pragmatismo: un cliente tranquillo e soddisfatto è sicuramente più disponibile all'acquisto.
Sia chiaro: noi non vendiamo nulla, almeno non direttamente.
Il dottore che avevo davanti, il primo della giornata, scelse la prima via e fece un brusco cenno con la mano:
Accomodati che non ho tempo da perdere!
Io questa cosa del tempo che si perde non l'ho mai capita.
Sarà perché a fare lunghe file d'attesa si finisce per diventare un po' filosofi, coltivando la pazienza come suprema virtù, o perché siamo costretti a rendere utile ogni minuto che ci è concesso, ma per me il tempo non è mai perso, semmai guadagnato, almeno fino a prova contraria.
Eppure questa frase la sentivo spesso, ad esempio nelle sale d'attesa, come se le persone fossero costrette a stare lì contro la loro volontà e con impegni ben più urgenti da soddisfare.
Era la fretta a farli parlare, la maledetta fretta. Quella che io non potevo permettermi.
Comunque decisi, come al solito, di sedermi senza fare commenti.
Mi guardai meccanicamente intorno alla ricerca di qualche indizio che potesse servire a rendere proficua la visita.
Sulla scrivania del medico, in mezzo a fogli e ricette, c'era una pila di depliants, segno inequivocabile del passaggio di innumerevoli altri colleghi. Dalla sua altezza si poteva dedurre il tempo trascorso (i mesi, gli anni, le ere), come le stratificazioni geologiche in un terreno.
Cercai il volto del medico dietro a quella fortificazione, alla ricerca di un sorriso.
Non vidi nulla; allora provai a essere io il primo, a sciogliere quel iceberg di indifferenza. Sorrisi ma lui non contraccambiò; lo conoscevo da anni e dedussi che doveva avere avuto davvero una pessima giornata.
Si limitò a muovere il mouse sul tavolo per riattivare lo schermo del computer.
Poi, mentre fissava il monitor con attenzione, mi fece un altro cenno:
Ok sono pronto, comincia pure!
Allora cominciai.
La mia mano ha uno spasmo e si stringe, forma un pugno dal quale scivola e cade qualche goccia rossa.
La guardo in silenzio.
Per un momento la mia mente è vuota; ha messo in pausa tutti i pensieri.
Si limita ad attendere il prossimo evento, qualunque esso sia e chiunque sarà quello che lo dovrà compiere.
Mentre aspetto comincio a ricordare, a ricordare tutto.
Tutto, fin dall'inizio.
Io sottoscritto... nato a... laureato in chimica presso... chiede di poter sostenere un colloquio per un eventuale posto di lavoro inerente al proprio titolo di studio. Fa anche presente che...
Eccetera, eccetera.
Questo è sommariamente il testo di una delle innumerevoli lettere che spedii ad aziende che potevano essere interessate alle mie competenze.
Ancora poche, per la verità, ma se bastava la buona volontà o la semplice disperazione, allora avevo qualche chance di riuscita.
Dopo sette anni di università (quattro regolari più tre fuoricorso) e due di servizio civile, avevo solo le idee più confuse. Nella nebbia della mente, come un faro luminoso, brillava una necessità ormai inderogabile: avevo bisogno della mia indipendenza.
Ma soprattutto era la mia famiglia che non perdeva occasione di farmi notare che i tempi erano ormai maturi: quando trovai sulla porta della mia cameretta il cartello AFFITTASI, capii che dovevo seriamente darmi da fare.
Purtroppo le risposte ai curricula che spedivo quasi giornalmente, quando arrivavano, erano invariabilmente di questo tenore: Egregio dottore, la ringraziamo per aver scelto la nostra azienda. Siamo spiacenti, il nostro organico è momentaneamente al completo. Terremo in considerazione la sua domanda per un eventuale colloquio futuro.
Preso dallo sconforto, avevo pensato di sostituire il diplomatico: “Egregio dottore” con un patetico:“Vi supplico!” e poi, al colmo dell'esasperazione, con: “Brutti bastardi rispondetemi almeno!”.
Finalmente capitò la botta di fortuna.
Tramite Gastone, un amico di mio padre che era già inserito nell'ambiente, riuscii a ottenere il mio primo colloquio.
Passai la notte precedente vestito in giacca e cravatta a fare le prove davanti allo specchio per catturare la postura migliore, la mimesi facciale più adeguata, i gesti e il tono della voce più convincenti e ammalianti.
Quando finalmente spuntò il sole, ormai ottenebrato dalla stanchezza e dalla tensione, decisi che ero pronto per provare a convincere il mio futuro datore di lavoro.
L'appuntamento era fissato per mezzogiorno in un piccolo albergo del centro.
Prima di me, una lunga fila di almeno venti persone che, quando entrai, mi guardarono in cagnesco per un lungo istante, poi ripresero le loro mansioni: fare conchetta per sorvegliarsi l'alito, sistemarsi il nodo della cravatta con aria sconsolata come fosse il cappio della loro prossima impiccagione, tenere le braccia ben distese sui fianchi per nascondere le ascelle già madide di sudore, guardarsi la punta delle scarpe ripassando mentalmente ipotetiche domande e adeguate risposte.
Quando venne il mio turno entrai nella saletta prenotata per l'occasione e mi sedetti davanti a una piccola scrivania: di fronte a me una candida testa china impegnata a scrutare un foglio sul ripiano del tavolo.
Si sieda.
Sì, certo. Già fatto. Io sono...
Lo so. Ho qui il suo curriculum. Laureato, bene sì, ma dica: come mai tre anni fuori corso? Non le piaceva proprio studiare, vero? E sul lavoro, avrà la stessa serietà?
Mentre parlava aveva lentamente sollevato il capo mostrando due occhi penetranti, un sorriso ambiguo e strafottente che gli tagliava la faccia come una ferita.
Iniziai a tremare.
Io... no, ma... è solo che... un esame che non capivo...
Ah, lei non capiva... bene, bene. E mi dica...
Il colloquio continuò su questo tono irrisorio per altri dieci minuti durante i quali sudai, balbettando e bofonchiando scuse e giustificazioni per ogni cosa che mi chiedeva. La mia dignità era andata in vacanza e forse non sarebbe più tornata.
All'uscita credetti di leggere negli occhi degli altri in attesa i segni inequivocabili della mia sconfitta.
Il giorno dopo mi telefonò Gastone confermando il completo fallimento dell'impresa.
Mi hanno raccontato! Sei stato troppo remissivo! Quelli lo fanno apposta, vogliono testare il carattere dei candidati!
Ma mi ha insultato tutto il tempo!
E tu dovevi tenergli testa! Vabbè, ormai è fatta. Ho un'altra azienda comunque, sempre che ti interessi...
Certo che mi interessava, e questa volta non avrei commesso gli stessi errori.
Due settimane dopo, durante le quali avevo fatto pratica trattando malissimo chiunque mi capitava a tiro, bullizzando mia sorella e cercando di incrinare lo specchio con il mio sguardo più duro e cattivo, mi presentai allo stesso albergo, alla stessa ora, in mezzo a quasi le stesse persone della volta precedente. Le fulminai tutte con occhi assassini prevenendo ogni loro cordiale saluto, che comunque non venne, e mi misi ad aspettare in silenzio, digrignando i denti.
Quando fu il mio turno mi sedetti di fonte al rappresentante dell'azienda ma non gli detti il tempo di formulare alcuna domanda:
Senta, glielo dico subito: l'università è andata come è andata e questi sono problemi miei! Se mi vuole assumere bene, le assicuro che non sene pentirà! Sennò amici come prima e tanti saluti!
Lui mi guardò allucinato, restò alcuni secondi in silenzio, poi mi fece garbatamente segno che l'incontro era finito.
Mi accorsi dell'ennesimo errore e tentai un recupero in extremis, ma egli non volle sentire scuse.
All'uscita ero mogio e affranto e immaginai negli sguardi degli altri candidati lo stesso disprezzo che riservavo a me stesso.
Beh potevi almeno aspettare di capire chi avevi di fronte, no? Non sono tutti uguali! La prossima volta cerca di avere pazienza e di trovare una giusta via di mezzo! Sappi che sarà la tua ultima occasione. Non posso farti da balia per tutta la vita!
Per fortuna il terzo colloquio che mi procurò Gastone andò molto meglio.
Riesumai l'esperienza fatta un'estate di qualche anno prima servendo ai tavoli di un ristorante: gestire le emozioni, fingere opportunamente, accondiscendere sempre.
Riuscii a trovare un proficuo equilibrio fra tutto questo e la necessità di mostrare carattere e determinazione.
Fu un successo: il capo area con cui ebbi il colloquio mi scelse per l'ultimo incontro, quello determinante con il direttore generale dell'azienda.
Mi recai in sede a Milano in treno con pochi bagagli e tante speranze.
Alla stazione i miei genitori mi salutarono con la medesima enfasi che mi avrebbero riservato se stessi partendo per il fronte.
Arrivai all'appuntamento due ore prima del dovuto.
Il manager era un uomo elegantissimo con lo sguardo indagatore e il tono misurato di un padre confessore.
Alla sua sibillina domanda:
Senta, perché vuole fare l'informatore medico?, ebbi un attimo di titubanza.
Nella mia testa passarono veloci mille ipotesi di risposta: volevo diventare l'angelo benefattore che avrebbe portato guarigione e salvezza a milioni di infelici, desideravo mettere a frutto la mia laurea in chimica, era la mia ultima possibilità per tentare di rendermi autonomo.
Poi, ricordandomi ciò che mi aveva detto Gastone, che quello era un lavoro basato molto su vendita e guadagno, optai per un discorsetto enfatico, ampolloso ma, speravo, sagace:
Voglio far parte di un'azienda che mi renda orgoglioso e che io possa adeguatamente contraccambiare! Poi sa, ho fatto il cameriere per un po' di tempo e so benissimo quale faccia usare per rendere il cliente, e di conseguenza il mio datore di lavoro, pienamente soddisfatto!
Capii subito dal sorriso che gli esplose sulla faccia, che lo avevo convito: il posto fu mio.
Lo stipendio era buono, soprattutto per uno come me che fino al giorno prima tirava avanti a paghette e regalucci. Sembrava un lavoro interessante anche se ancora pieno di incognite. Le due esperienze precedenti mi avevano fatto capire che in quell'ambiente non tutto era come appariva e che per sopravvivere bisognava affinare alcune specifiche doti: la furbizia, per esempio, di capire chi avevo davanti per comportarmi di conseguenza; la pazienza di trovare la via migliore, quella più breve e redditizia, per ottenere il miglior risultato possibile. Girava tutto intorno a questo, ogni interesse e ogni ambizione.
Era molto stimolante e molti anche gli immediati vantaggi: indipendenza economica, una macchina aziendale, un lavoro all'aria aperta, pulito e dignitoso. Aveva sicuramente delle zone d'ombra ma le avrei illuminate più avanti. Per il momento l'importante era aver ottenuto un meritato posto al sole.
Così iniziò la mia carriera da informatore medico scientifico.
Mentre lo sguardo del medico continuava a rimanere fisso sullo schermo del computer, mi sistemai meglio sulla sedia e cominciai la solita tiritera.
Ecco dottore, le volevo chiedere: ha poi avuto modo di usare il mio farmaco? Sì? No? Vabbè, le dico solo due parole a ricordo, allora...
Estrassi la mia penna e iniziai a farla correre sulle pagine lucide del depliant che intanto avevo girato verso di lui per attrarre la sua attenzione, ma lui non mi guardava, gli occhi puntati sul qualcosa che calamitava tutto il suo interesse. Mi fece solo un cenno con la testa come a dirmi di proseguire. Starà lavorando, pensai.
Sì, dunque. Come vede dal grafico...
Feci oscillare la punta della penna nell'aria come a cercare di ipnotizzarlo ma ciò non sortì alcun effetto e lui rimase immobile nella sua posizione.
Allora, curioso, sbirciai nel riflesso dei suoi occhiali e vidi quello che vedeva lui: carte da gioco.
Il medico stava facendo un solitario al computer.
Altro che impegno inderogabile!
Sentii montare dentro una rabbia sorda, sorda ma non cieca, perché vedeva benissimo l'oggetto del suo odio.
Mi fermai un attimo di parlare e lui non ci fece caso. Se in quel momento avessi iniziato a declamare la Divina Commedia, non se ne sarebbe accorto.
Capitava spesso, sempre più spesso negli ultimi anni, che ci fossero segni fin troppo palesi di una mera sopportazione nei miei, nei nostri confronti.
Non era del tutto colpa loro, forse era solo una conseguenza della mia stanchezza.
Il medico la percepiva e ne approfittava.
La noia e la routine sono acerrime nemiche del nostro lavoro.
Quando precipiti in questo gorgo senza fine, non c'è speranza di risalirne facilmente.
Ci vuole qualcosa di emozionale oppure il sapere che da ciò dipende la tua sopravvivenza lavorativa.
Però ci voleva un capro espiatorio ed era difficile incolparsi di tutto.
Strinsi i denti e le mani a pugno, e aspettai che la rabbia e la frustrazione, passassero. Ma sembrava non ne avessero alcuna intenzione.
Di fronte a me, sul tavolo, c'è un lungo oggetto scintillante, lo stesso che fino a pochi secondi fa stringevo nel pungo. Anch'esso è macchiato di rosso e se ne sta lì come un soldato ligio al dovere che si riposa solo dopo averlo compiuto.
Sembra un coltello, un piccolo coltello affilato.
La mente ancora una volta cancella l'immagine e mi ripropone i ricordi, tutto quello che può servire a capire cosa mi ha condotto a questo momento.
Non conoscevo molto del lavoro che mi apprestavo a iniziare, perciò mi recai in sede per il corso di addestramento animato da un'intensa curiosità.
Non potevo pensare che fosse solo una questione di soldi, non volevo credere che tutto dipendesse da questo. Sentivo che ciò che mi aspettava offriva altre interessanti ed edificanti prospettive.
Furono tre settimane intense dove venni bombardato da un'infinità di nozioni: sul corpo umano e la sua fisiologia, sulle cellule e relativi nuclei e mitocondri, su dendriti e assoni, fagociti e linfociti, milza, pancreas, cuore e polmoni; tutta roba che conoscevo solo per sentito dire.
Poi la chimica delle molecole e degli atomi, le reazioni, i legami, gli acidi e le basi, proteine e amminoacidi. Tutta quella ribollente mistura alchemica che finiva condensata in pozioni, elisir, compresse, pillole e fiale.
Man mano che si approfondivano i vari temi, sentivo nascere in me un comprensibile orgoglio: era necessario essere scientificamente preparati, utili sì alla causa del datore di lavoro, ma anche, e soprattutto, a quella del paziente, del medico. Una non doveva necessariamente escludere l'altra. Sembrava che il mio lavoro fosse davvero la summa ottimale di tutti i vantaggi possibili e io un ibrido efficace tra Madre Teresa e Bill Gates. Florence Nightingale e Rockfeller.
In una quotidiana schizofrenica scissione mentale, mi immaginavo di distribuire gratuitamente farmaci salvavita ai poveri malati e contemporaneamente di accumulare denari su denari e vincere l'ambito premio di miglior informatore dell'anno.
L'ultima settimana era dedicata alle tecniche di vendita: fu allora che si profilò più nettamente l'obiettivo aziendale e il mio piccolo edificante castello in aria, iniziò a mostrare le prime crepe.
Ricordo ancora il piccolo cartoncino che ci distribuirono e che avremmo dovuto portare sempre con noi come la sacra immagine del nostro santo protettore: lo schema che ci avrebbe mostrato il giusto modo e la giusta via per ottenere successo.
Iniziare il colloquio
Argomenti generici, dichiarazione dello scopo, indagine indiretta
Indagine
Quando si vuole incoraggiare il cliente a rispondere = domane aperte
Quando volete limitare le risposte del cliente a un sì o u no = domande chiuse
Sostenere
Quando avete scoperto l'esigenza del cliente = apprezzatela, introducete il beneficio del vostro prodotto più adatto a risolverla
Concludere
Quando il cliente vi offre un segnale d'acquisto = riassumete i benefici del vostro prodotto, chiedete l'impegno del cliente su di esso
Affrontare lo scetticismo
Offrite prove
Affrontare l'indifferenza
Indagate per scoprire altre esigenze
Affrontare le obiezioni
Formulate tutte le argomentazioni possibili in sostegno del vostro prodotto.
Tra noi tutti, alle prime armi e invasi dal sacro fuoco della voglia di mettersi in mostra a ogni costo, si era instaurato un certo cameratismo, anche se in presenza dei capi ci guardavamo con sospetto cercando di non perdere terreno a favore degli altri.
Una piccola guerra psicologica che era sostenuta e incoraggiata perché avrebbe dovuto temprarci in vista delle prossime prove sul campo.
Non arrivammo a dover saltare nel cerchio di cuoco per dimostrare il nostro indomito valore, ma quasi.
L'unico effetto che questo aveva su di me era che, alla fine di ogni giornata, avevo immancabilmente un terribile mal di testa.
Dopo alcuni giorni dedicati alla teoria, gli ultimi dell'ultima settimana vennero utilizzati per fare pratica. Fu allora che, per la prima ma non ultima volta, provai l'emozione, di cui avrei volentieri fatto a meno e che invece mi assillò per i successivi dieci anni di lavoro, della cosiddetta prova-intervista.
Uno di fronte all'altro come due pistoleri che si sfidano a un duello al primo sangue: chi interpretava la parte dell'informatore e chi quella del medico. Un informatore sempre positivo, agguerrito e indomabile; un medico di volta in volta, carogna, pieno di dubbi e domande, disattento o silenzioso.
Dovevano essere utili esercitazioni per prepararsi alla pugna; in realtà ogni volta mi sentivo addosso gli occhi di capi e insegnanti che guardavano e giudicavano.
Uno stress insopportabile. Alla fine di queste torture facevo un rapido riassunto mentale degli indubbi vantaggi che avrei avuto e tiravo avanti.
In qualche modo il mese di corso passò e ora non restava altro che mettere a frutto quello che avevo imparato.
Finalmente il medico si accorse del mio silenzio.
Beh, non ha altro da dirmi?
Sì, aspettavo solo che avesse finito...
Io... sì, ho finito. Mi scusi, in realtà non stavo facendo nulla d'importante...
Me ne sono accorto!
Lui mi guardò fisso e strinse i pugni.
Senta, io non devo rendere conto a lei... No, davvero... oggi non è giornata, meglio che ripassi un'altra volta!
Certamente...
Forse aveva ragione, forse era nel suo pieno diritto di ascoltarmi o meno, ma il rispetto, quello almeno lo pretendevo. Capii immediatamente che mi stavo addentrando in un territorio pericoloso e controproducente. Ricordai il mio primo colloquio di lavoro, il consiglio di non perdere mai terreno di fronte al cliente, rimanere fermo nelle proprie posizioni facendo rispettare i propri diritti. Poi improvvisamente cadde la fatidica goccia, quella che fece tracimare tutto: il dubbio. Chi aveva ragione? Io o lui? Cosa potevo pretendere, in fondo? Questo mi fece perdere la calma e la sicurezza.
Può anche darsi che lei abbia ragione, ma io...
Non può darsi... ho ragione! Ora finiamola!
Un velo rosso iniziò a calarmi sugli occhi e non vidi più nulla. Solo la penna che mi serviva per illustrare il depliant e che ora stringevo più forte nella mano.
Ora guardo meglio e mi accorgo che quello che ho davanti non è un coltello, ma la penna, la solita che uso sempre, quella con il logo dell'azienda che nel manico ha una piccola lama da usare come tagliacarte. Un gadget, ne ho il baule pieno e sembra che non ne abbia mai a sufficienza da quanto medici e infermieri me ne chiedano sempre.
Una piccola cosa stupida che ora assume una grande importanza.
Improvvisamente vedo il quadro generale e lo riconosco: la mano, il coltellino, il colore rosso.
Tutto in fila, tutto logico e amalgamato alla perfezione.
Prima di chiudere il cerchio e farmi invadere, ancora una volta, dall'inevitabile e ingombrante realtà, mi permetto un'ultima divagazione.
Lo faccio perché so che sarà utile a spiegare tutto, ogni minimo dettaglio e anche l'ultima, più piccola tessera di questo strano mosaico andrà a posto.
La prima mattina del primo giorno di lavoro ci misi un'ora a prepararmi.
Lo schedario dei medici, una cartina topografica, l'elenco telefonico, bussola e sestante (la città è una jungla), un coltellino svizzero multiuso (non si sa mai), un pacchetto di grissini, una bottiglietta d'acqua e una mela per i pasti frugali, uno spray al peperoncino per i pazienti aggressivi, il quaderno degli appunti del corso, la tesserina con lo schema d'intervista, la pilotina piena di depliants, gadgets e saggi di medicinali.
Mia madre mi salutò con un palese sollievo, come se non dovessi tornare mai più a disturbare i suoi abitudinari ritmi quotidiani.
Vai figlio mio, il mondo ti aspetta!
Di questo non ero ancora troppo sicuro.
Il primo medico accolse il mio sorriso cinematografico e la mia calorosa stretta di mano con un secco:
Ah, lei è nuovo! Bene, sappia che da me non si perde tempo, né io né lei ne abbiamo a sufficienza! Mi faccia un rapido elenco dei suoi articoli e le dico cosa mi serve!
Il secondo mi accolse in canottiera.
Ah, mi scusi, mi stavo lavando. Questi pazienti, sono dei tali sporcaccioni! Ma venga, venga, non stia lì sulla porta! Si accomodi su questo divanetto e mi racconti come mai ha intrapreso il suo bellissimo mestiere!
Il terzo fu brusco e sintetico.
So tutto! Non mi serve niente!
Il quarto, invece, gentilissimo.
Sì, interessante... E questo come dice che si usa? Sa, io ero abituato ad usare altro... Vada avanti, mi interessa davvero!
Il quinto guardò il ripiano della scrivania per tutto il tempo; tentai di illustragli i miei “articoli” ma ogni campione che lasciavo, veniva afferrato e gettato con matematica precisione sopra a una montagna di altri suoi simili che giaceva sul pavimento alla sua destra.
La cosa assunse subito la monotonia di una vera e propria catena di montaggio: intervista, campione, volo, atterraggio; intervista, campione, volo, atterraggio. Dopo un po' mi stancai e tolsi il disturbo, sempre accompagnato dal suo più assoluto silenzio.
La mia fervida fantasia mi fece immaginare di sentire i flebili lamenti dei miei campioni farmaceutici abbandonati sul pavimento come cagnolini in autostrada.
Il sesto, e ultimo della mattina, aveva la mia età, trenta appena compiuti, e le mie stesse insicurezze per un lavoro che anche lui aveva iniziato da poco. Ci piacemmo immediatamente, i disperati si annusano e si riconoscono, diventammo amici e lo siamo tutt'ora.
In poche ore avevo passato in rassegna tutta la variegata tipologia dei medici che avrei incontrato nei miei successivi dieci anni di carriera.
La mia ditta, come tutte le altre d'altronde, aveva una struttura piramidale: sopra la testa che decide, sotto le gambe che corrono.
Ognuno di noi aveva il suo supervisore, il capo-area, che faceva da tramite tra noi e la sede; il tentacolo aziendale che saggiava la situazione territoriale, la analizzava e la giudicava.
Venivamo giudicati per le vendite, i dati, che forniva il territorio.
Lui era, nel migliore dei casi, un buon papà e, nel peggiore, un cerbero pretenzioso che pensava di aver assaggiato il frutto della conoscenza e si sentiva in diritto di insegnarti ciò che aveva imparato.
Non perdeva occasione per dispensarti le sue perle di saggezza, proverbi, modi di dire o frasi a effetto, tutto opportunamente adattato alla situazione contingente: i risultati sono inaccettabili, i dati in crollo verticale, bisogna prendere il medico per la collottola, questo è un momento epocale, non fasciamoci la testa prima di essercela rotta.
Il mio era un omone dalla barba folta e grigia, le dita macchiate di nicotina che faceva correre sui grafici delle analisi di mercato e gli occhi che mandavano lampi mentre illustrava la mia situazione, perennemente tragica e disastrosa.
I suoi cosiddetti affiancamenti erano per me stilettate nel costato, rigurgiti di bile, extrasistoli a raffica.
Per fortuna veniva a farmi compagnia non più di una volta ogni tre mesi.
Per la maggior parte del tempo ero solo con problemi e pensieri, un nomade in un lungo e perenne viaggio d'affari.
Gli informatori vivono una stretta simbiosi con la loro automobile, ormai trasformati in esseri cibernetici, mezzi uomini e mezze macchine.
Come chiocciole vaganti ci trasciniamo dietro la nostra casetta piena di comfort.
La usiamo come nave da guerra, tavola da pranzo, camera da musica, sala da lettura, letto per il riposino postprandiale, sancta sanctorum in cui meditare e pianificare. il nostro più sicuro rifugio.
Il baule è una cantina piena degli attrezzi utili per il nostro lavoro: saggi, depliants, omaggi, riviste, documenti.
Se qualcuno ci vedesse, nel parcheggio di qualche ospedale immersi fino alla vita nelle sue profondità alla disperata ricerca del campione perduto, le gambette che si agitano freneticamente nell'aria per mantenere l'equilibrio, sembreremmo dei neonati che tentano di portare a termine il loro parto podalico.
Affrontiamo ogni giorno le insidie del traffico cittadino come rompighiaccio che tentano di farsi strada nel pak, tra colonne ininterrotte, trincee e cavalli di frisia di interminabili lavori in corso, fiumi di macchine e camion, tutti disperatamente alla ricerca del nostro posto al sole, anche solo di un parcheggio.
Il nostro è un lavoro che si muove in un mondo in cui vigono leggi, regole e dinamiche comportamentali assolutamente originali, che al suo centro perfetto c'è l'Yggdrasil, il Farmaco, la Cura: il paziente la pretende, il medico la cerca, l'informatore la propone.
Dieci anni in questo ambiente sono tanti e rischiano di portarsi via energie, ambizioni e aspettative.
I colleghi più anziani mi avevano raccontato di una situazione lavorativa, quella che loro avevano vissuto anni prima, dove ogni nostra visita veniva accolta con tripudio e gioia, lanci di petali e confetti, tappeti rossi e fanfare squillanti, mentre il tempo quasi si fermava, i pazienti s'inchinavano al nostro passaggio e il medico chiudeva l'ambulatorio e si prendeva una mezza giornata di pausa in nostra compagnia.
Racconti mitologici ai quali avevo fatto fatica a credere, soprattutto quando mi ero reso conto che invece non tutto era rose e fiori.
Anzi. Il mercato era in espansione e la concorrenza si moltiplicava. Ne facevano le spese la spontaneità, la pazienza, la tolleranza. I risultati dovevano essere sempre migliori e sempre più veloce il tempo per ottenerli.
Ma la realtà ti sorprende sempre e dopo i primi nove anni il bilancio tra delusioni/amarezze versus soddisfazioni/successi, era perfettamente in pareggio.
Avevo preso confidenza con i miei clienti, sapevo quali tasti toccare per raggiungere gli obiettivi, anche solo andarci vicino tanto da sopravvivere e continuare a divertirmi.
Qualche volta spuntava un farmaco utile e interessante; il medico ti stava a sentire volentieri e quando ti diceva che lo aveva usato e il paziente era rimasto soddisfatto, mi sentivo quasi orgoglioso di un lavoro che era anche piacevole e soddisfacente.
Come un Picasso del farmaco ebbi il mio periodo rosa con la pillola che combatteva l'ulcera e la gastrite, e il periodo blu con quella che risolveva le crisi di prestazione sessuale.
Mi regalai anche un paio di cambi di azienda, per provare a migliorare guadagni e soddisfazioni.
Poi, tutto cominciò a cambiare.
Mi ero già accorto che l'aziendale testa pensante a volte pensava male e allora noi, le gambe correnti, dovevamo correre più in fretta per sopperire ai suoi errori.
Errori che venivano giustificati dal periodo contingente, dalla crisi del settore, dalla mancanza di novità davvero sensazionali. Vero, in parte, ma comunque non sufficiente a giustificare ciò che accadde.
Quello che all'inizio era il comune bisogno di progredire, nostro e dell'azienda, stava per dividersi in due obiettivi ben diversi: l'azienda cercava di proteggersi riducendo le spese, noi di sopravvivere aumentando i guadagni. IL primo era facile, Il secondo molto più complicato. Tutto si stava trasformando in una guerra aspra e violenta, senza vincitori ne vinti, ma con centinaia, migliaia di caduti.
Improvvisamente anche da noi si profilò all'orizzonte il fantasma che temevamo, il mostro distruttore che con la sola ipotesi della sua presenza mi teneva sveglio la notte a immaginare un futuro di elemosine e pranzi alla mensa dei poveri: la Ristrutturazione Aziendale.
Una parola che sapeva di modernizzazione ed evoluzione ma che celava solo un inevitabile bagno di sangue.
Nel frattempo mi ero sposato, avevo comprato casa, messo in cantiere un figlio e non potevo certo permettermi di finire in mezzo a una strada.
Nella ditta era cambiata la dirigenza e i nuovi arrivati avevano velleità e ambizioni, forse solo la necessità di giustificare in qualche modo il loro lauto stipendio.
Di solito in queste situazioni si comincia tagliuzzando, rabberciando, svecchiando la forza lavoro nella speranza che i nuovi assunti avessero ancora quella utile fame che avevo anch'io all'inizio e che, come era nell'ordine delle cose, nel tempo si era mitigata.
Mi dettero un mese di tempo per recuperarla e dimostrarmi all'altezza della loro fiducia.
Un mese, sennò ero fuori.
Questo ci porta all'inizio della mia piccola storia.
Ero entrato dal medico pieno di buone intenzioni, con la voglia di ritrovare l'energia originaria, quella che in tutti questi anni mi aveva permesso di ottenere i migliori risultati.
Quella che avevo perso, sommerso dalla noia e dalla monotona routine.
Mi ero disperatamente aggrappato a quest'ultima possibilità.
Mi ero però scontrato con il solito muro di indifferenza, in cui percepivo la mia stessa stanchezza e un pizzico di disillusione.
L'atteggiamento del medico che avevo davanti mi stava impietosamente dimostrando che non esistevano alternative, che ormai il mondo era cambiato e che ogni mio tentativo era destinato al fallimento.
Per questo venni sommerso dalla rabbia e dalla frustrazione.
Mi alzai mentre attraverso il velo rosso che era calato davanti ai miei occhi vedevo la mano alzarsi stringendo forte la penna-tagliacarte.
Poi sorrisi, lasciai cadere la penna e allungai la mano ora vuota, per un saluto.
Non c'è problema, ho finito! Grazie dell'attenzione!
No senta, io...
Mentre uscii lasciandomi alle spalle un medico stupito che forse cominciava a pentirsi del suo atteggiamento, lo sentii, o immaginai di sentirlo, borbottare qualche vaga scusa.
Appena fuori dall'ambulatorio decisi che era l'ora giusta e mi diressi sicuro verso il ristorante più vicino.
Per oggi, forse per sempre, avevo finito.
Lo so, vi ho ho preso in giro.
Forse vi aspettavate un giallo con finale a sorpresa oppure un horror con tanto di scena splatter dove il sangue scorre e le urla si sprecano.
Invece no, nulla di tutto questo.
Io però ve lo avevo detto: questa è una piccola storia, un modo per raccontare un po' i fatti miei. Se ve lo avessi detto prima forse non sareste andati oltre le prime righe.
Così almeno ho ottenuto il risultato di farvi dare un'occhiata al mondo nel quale mi sono barcamenato per dieci anni e dove intendo continuare, se me lo permettono, fino alla pensione.
Non so se ci riuscirò, perché spesso i desideri non coincidono con le realtà.
Come ho detto il mondo, il mio mondo, sta cambiando, forse il nostro lavoro si estinguerà come hanno fatto i dinosauri; magari non con un evento violento e deflagrante, più come una malattia lenta e ostinata che tutto distrugge, basta dargliene il tempo.
Non importa, finché ci saremo proveremo a finire la giornata, a far quadrare i conti, ad assolvere i nostri doveri, a ritenersi comunque soddisfatti perché di meglio proprio non si poteva fare.
E questa rimarrà, nonostante tutto, solo una piccola storia.
Guardo le dita sporche di sugo di pomodoro, le pulisco nel tovagliolo, poi sorrido e riprendo a mangiare.
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