giovedì 25 marzo 2021

 STORIE DA UN ALTRO UNIVERSO

TERZA STORA

99


Quel maledetto numero mi risuona in testa: "99, 99, 99!"

L'incontro con il capo e i colleghi d'area è stato ieri. Mi ha lasciato il solito mal di stomaco e un'immancabile senso di frustrazione.

Il primo per il fatto che quando mangio in riunione proprio non digerisco, il secondo per quel numero: il 99. Sì, al maledetto manca un niente per essere 100, ma 100 ancora non è.


Torniamo indietro di un giorno.

E' mattina preso: esco da casa e salgo in macchina per andare al lavoro come al solito. Solo che oggi il mio lavoro non è, come d’abitudine, la rincorsa ai medici sparsi per il territorio: oggi c'è la riunione di ciclo.

Il ciclo che intendo non è quello mensile delle donne: il nostro cade ogni trimestre circa e individua un lasso temporale nel quale raggiungere obiettivi più o meno prefissati. Su di me però l’effetto è il medesimo: quando hanno il ciclo le donne sono nervose e irascibili, quando ho la riunione di ciclo sono io, quello nervoso e irascibile.

In realtà sarebbe anche un buon momento, che interrompe il via vai di un lavoro sempre uguale a se stesso; incontrare i colleghi è sempre piacevole, ma è tutto il resto che proprio non sopporto. Non so se l'ho mai sopportato, ma con l'andare del tempo è diventata una vera tortura.

Arrivo tra i primi, parcheggio lontano l'auto in leasing aziendale che utilizzo per lavoro, perché mi vergogno, tanto è sporca di fango. Non la porto praticamente mai all'autolavaggio attendendo provvidenziali piogge. Solo che non siamo in India; i monsoni si fanno attendere e i temporali nazionali non bastano. Alla fine dell'estate la mia auto è impresentabile.

Mi vergogno anche del mio disordine: i farmaci nel portabagagli non sono tenuti come si dovrebbe, anche per il fatto che carico l'auto una volta alla settimana per non doverlo fare ogni mattina presto od ogni sera al ritorno dal lavoro. Così accade che il lunedì la disposizione di colli e sportine piene di farmaci risulta razionale e geometrica, mentre il venerdì il caos ha ripreso il sopravvento.

Afferro la borsa in finta pelle da finto medico, e mi dirigo verso l'albergo alla periferia di Bologna in cui si svolgerà l’incontro.

All'entrata saluto colleghi e amici. Quasi tutti amici, a qualcuno sono anche sinceramente affezionato, nessuno mi sta di traverso e in tanti anni di lavoro ho avuto solo una franca antipatia... diciamo due... facciamo tre.

C'è anche il capo che, fino a non molto tempo fa, era uno di noi. Mi accoglie con un enfasi che dovrebbe darmi la carica necessaria a sopravvivere alla giornata; lo saluto con la stessa enfasi, che però risulta fin troppo falsa: nella mia testa, alla vista dell'uomo che gli sta accanto, è esploso un: "Porca puttana!", intenso e partecipato come se lo avessi urlato a pieni polmoni.

C'è anche il direttore vendite! Ancora!? Non sta mancando una riunione, come considerasse il capo non abbastanza adeguato al ruolo, non abbastanza capace di motivarci, non abbastanza in grado di trasmettere le volontà dell’azienda, insomma non abbastanza...

Capisco all'inizio, ma è la terza volta di fila che viene!

Il nuovo capo l'hanno scelto loro: aveva risultati ottimi sul campo, ma, come si dice, un buon manovale non è detto sia un buon capomastro. Fatti loro, dovevano pensarci prima. E invece no, sono anche fatti nostri. Anzi, problemi nostri.

Io mi sono affezionato a tutti i capi che ho avuto: il primo non serviva a nulla, ma non rompeva le scatole, il secondo stava con me giorni interi, era di aiuto con il medico e molto motivante, ma altrettanto stancante; il terzo, questo, vorrei dire che unisce il meglio dei primi due, ma non posso, proprio non posso. In realtà è un impiccio quando entra dal medico e la sua capacità motivante è mediocre. Però è una brava persona, mentre il direttore vendite è un falso amichevole, uno di cui non ci si può fidare, per ruolo e potere di nuocere.

È affabile, da del tu a tutti, ride, ma io temo che il suo atteggiamento non sia del tutto sincero. Lui è la mano e gli occhi dell’azienda che, evidentemente, sta diventando sempre più disfunzionale. Sento con chiarezza che i tempi migliori sono alle spalle e non credo di essere il solo a fare questa triste considerazione, sono certo che lo percepiscono anche i miei colleghi.


Si parte. Io cerco di parlare poco, ma di fornire comunque una minima e cauta partecipazione. Se parli poco sicuramente dici meno cazzate, ma se non parli mai, pare che non te ne freghi niente, e non va bene nemmeno così.

Ogni tanto si ride pure ma non come una volta. La presenza del direttore vendite un po’ pesa. Siamo tutti più guardinghi.

Poi ci sono i nuovi colleghi: negli ultimi tempi l'area è cambiata in estensione e territori, come un'ameba gigantesca che non trova pace. Abbiamo perso il riminese, poco male, e guadagnato il rovigotto: direi che il saldo è positivo.

È successo anche, tempo prima, che un'anziana collega emiliana e logorroica sia andata in pensione, sostituita da una giovane; qui sul saldo sono meno certo. Aspetto prima di dare il giudizio definitivo.

In ogni caso i colleghi rimasti sono il segno di una continuità che mi da qualche speranza e rende più piacevole un tempo che, altrimenti, sarebbe totalmente insopportabile.


Ok, si parte con la scaletta: prima c'è una sorta di entrèe, più o meno lunga, in cui il capo area cerca di ricordarci gli obiettivi aziendali, di farci presente l’importanza del nostro impegno, di instillarci un certo senso del gruppo: tutte cose pressoché inutili, che dimentico dopo10 minuti. Poi si espongono eventuali novità, ultimamente tutte risibili, e si programma una sorta di strategia trimestrale che ognuno di noi declinerà nella sua personale tattica, giorno per giorno. Questo è il momento in cui di solito si interviene di più.

È anche gradevole confrontarsi, anche se si vive in una sorta di limbo, e non puoi dire tutto quello che pensi. A me, per esempio, oggi verrebbe da dire che stiamo proponendo ai medici una cag...ta dopo l'altra, mentre una volta lanciavamo farmaci di una certa rilevanza. Guardo il volto assertivo del direttore vendite, e capisco che proprio non è il momento. Al contrario, quando intervengo, cerco di essere costruttivo. Mi pare anche giusto.

Uno dei migliori del gruppo è invece spesso polemico in modo per me incomprensibile; se fossi bravo come lui passerei la riunione con un sorriso serafico stampato sulla faccia. Invece Alessandro proprio non ce la fa a non polemizzare, tanto che si spazientisce anche il direttore vendite.

Dopo il benvenuto dello chef si passa al pezzo forte del menù, il momento per me peggiore: l’esposizione pubblica dei dati di vendita. Il capo area, su cenno di assenso del direttore vendite, cerca il file sul portatile e avvia la proiezione.

Attimi di puro terrore. Il cuore batte a mille; ci guardiamo in silenzio, come a cercare conforto ognuno negli occhi dell'altro.

Come sempre il capo spiega che dall'azienda, e il direttore annuisce (in pratica non fa altro da almeno mezz'ora, tanto che, penso, faceva prima a mandare in riunione un suo cartonato con la testa montata su una molla), è considerato importante non lasciare questo momento come personale ma renderlo collettivo. Immagino sia nell'ottica di pungolare la ricerca di risultati tramite il confronto/scontro tra colleghi, ora che i premi in denaro sono sempre di meno. Quando non c'è la carota, va bene anche il bastone.

C'è il prodotto X, quello Y, il Z è così via. Di ognuno ci dice quanto ne vendi tramite un numero.

Per definizione la media spalmata sul suolo italiano è cento: se hai più di cento nella tua zona sei sopra la media e quindi sei bravo, se hai meno di cento sei sotto la media e quindi sei scarso.

Questa cosa si ripete per ogni singolo farmaco o meglio per ogni singolo prodotto: ormai l’azienda sta scivolando sulla china degli integratori senza saperli valorizzare e, a me pare, senza neppure saperli scegliere. Una scelta infausta, ma in tempi di crisi si mette mano alle scorte invernali.

L’ostensione dei dati è sempre stato per me un momento davvero terribile. É come una cristallizzazione insindacabile del mio valore come lavoratore e, siccome il lavoro è gran parte della mia vita, qualcosa che definisce quanto valgo come persona: gongolo quando vedo un numero sopra cento e mi sento incapace quando esce qualcosa con due sole cifre.

Eccolo, il problema del 99: non ancora 100, ma di poco, troppo poco.

Forse meglio avere 50 ed essere sicuri della propria morte.

Certo, i prodotti da vendere sono più di uno, qualcuno è sopra la fatidica cifra, qualcuno sotto; ma, poiché la media delle medie non si fa, ti vien da pensare che ogni numero sotto 100 rappresenti una macchia indelebile. E' difficile non averne nemmeno uno. Io ci metto del mio: il numero più basso, se non arriva a 100, diventa una sorta di ancora esistenziale. Se non te ne liberi, rischi di annegare.

Questo meccanismo di perenne confronto dovrebbe spronarci a spingere il prodotto o i prodotti scarsi, con particolare veemenza. Senza dimenticare gli altri però, che altrimenti potrebbero finire loro sotto 100. Insomma, si rischia che la coperta degli sforzi risulti sempre troppo corta.

Detto tra noi: non sono sicuro che tutto dipenda dal nostro impegno, viene da pensare vi siano anche variabili esterne, magari storiche, legate a momenti determinanti in un dato territorio, oppure relative alla presenza di un opinion leader medico favorevole, o ancora perché la o le aziende competitor hanno assunto un fancazzista (questo non succede spesso, ma se capita è una vera manna dal cielo!).

Ma ogni appello alla complessità suonerebbe come una scusa: ricordo sempre con ribrezzo che la massima più vomitevole nel più becero lessico aziendale è: "Non esistono problemi, solo opportunità!". Ma vaff...


Okkey, torniamo ai dati. Per farmi capire: c'è quello mensile, poco significativo ma se è buono è meglio, perché è impossibile che al direttore vendite sfugga un dato negativo; il trimestrale, più importante perché corrisponde al periodo che individua il ciclo di lavoro; infine la famigerata media mobile annuale. Io ci ho messo un po’ a capire cosa fosse: è in pratica una media che ti insegue mentre ti muovi nello spazio tempo. In pratica un enorme buco nero da cui non si può sfuggire. Se siamo a gennaio dell'anno lei parte dallo stesso mese dell'anno precedente; quando si passa a febbraio, anche la coda della media avanza con te. Che bello. Una media che non ti lascia mai, come un cane, fedele ma fastidioso, che non riesci a distanziare. Nemmeno abbandonandola in autostrada.

Infine c'è il dato evoluzione, il più pericoloso: fotografa il trend, come la tua zona si sta muovendo. Se va male, deve crescere, se va bene, deve crescere di più. Insomma, c'è sempre qualcosa che non va. Sospetto che l'azienda lo faccia apposta per tenerci tutti e sempre a guinzaglio corto e collare stretto. Basta un filo d'aria per convincere il medico.

Mentre il capo scartabella tra le pile di fogli che si è portato dietro e il direttole continua ad assentire (temo a questo punto che si sia addormentato con gli occhi aperti), mi guardo intorno, il cuore veloce come un super espresso giapponese, mi guardo intorno per vedere cosa stanno facendo i colleghi.

Quello di Modena, il grafomane compulsivo, scarabocchia su un foglio strane cose dadaiste che immagino rappresentino la tempesta emotiva che si sta scatenando nella sua mente; la collega di Ravenna, fanatica della meditazione trascendentale, rimane ad occhi chiusi ma spalancati sul suo mondo interiore; i colleghi di Bologna si danno di gomito, sicuri della loro debacle e accettandola filosoficamente con un sorriso (probabilmente soffrono anche loro ma, per pudore, non lo danno a vedere); la collega di Parma, famosa lecchina, finge di ripassare il nuovo depliant (esattamente uguale a quello di prima) in vista della futura, inevitabile, temutissima, prova intervista.

Va bene, ora partono i numeri:

“Primo prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 130... ultimo mese: 117!” E vai!!

Ok, sono pochi pezzi, il lancio è recente, comunque sempre meglio partire bene. Il mio cuore decelera per un attimo.

Poi il capo precisa: “L'evoluzione, Rondoni, l'evoluzione...”, e vengo sommerso da una salva di extrasistoli.

Il direttore improvvisamente si sveglia e declama le sue considerazioni: “Se non ci sono dati tragici in una zona restano avvertenze generali; in caso contrario si opera un necessario approfondimento. Per carità, fatto gentilmente!” Ho capito poco, ma il linguaggio aziendale è spesso volutamente generico, banale e criptico; salvo poi non perdere l'occasione di redarguirci, se non abbiamo fatto tutto a dovere, con un: “Te l'avevo detto!”

“Secondo prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 107 … ultimo mese: 110!“

Questo è un prodotto più maturo e io sono riuscito a stabilizzarmi sopra 100 da un bel po’, ma non si sa mai. Bene così. Una carezza al mio povero ego sfibrato.

“Terzo prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 67... ultimo mese: 81!” Vabbè questo è un vecchissimo brand che non è neppure nostro, abbiamo accordi di commercializzazione da 15 anni con un'altra azienda che lo produce. Nessuno di noi ci mette impegno, anche se é una cosa che non si può dire apertamente. Anche se non vale, si buoni dati dei colleghi un po’ mi infastidiscono.

“Quarto prodotto... zona Romagna... (questo è importante, è una gloria dell’azienda)... Forlì-Cesena, Rondoni... media del trimestre: 100... ultimo mese: 101!” Sono da sempre sul confine tra bravo e scarso, con questo prodotto.

Il fatto è che i pezzi venduti sono tanti e cambiare qualcosa è veramente difficile, non basta che un medico amico prescriva un pezzo in più.

Il rischio è di impegnarsi allo spasimo per non ottenere nulla. Su questo farmaco talora ho l’impressione di correre a perdifiato su un tapis roulant solo per rimanere fermo sul posto.

“Quinto prodotto... zona Romagna... Forlì-Cesena/Rondoni... (aspetta Roberto, fermiamoci un attimo. A parte il farmaco inutile in conto terzi non sei mai stato così bravo! Forse è la volta buona che)... media del trimestre: 99.... (no!)... media del mese: 99!” (noooooooooo...). Eccolo, il 99, il maledetto, l'inutile, il dannoso. Né carne né pesce; né zuppa, né pan bagnato; né bianco, né nero. Né alloro in capo, né schiaffi sui denti. Sembra stupido, mica ti uccidono per questo. Invece no: quando il capo, a fine riunione, mi dice: “La prossima settimana vengo in affiancamento che ne parliamo!”, capisco che, magari non rischio il licenziamento, ma la smolecolarizzazione testicolare sì. E a quelli, io ci tengo! Bisogna prendere provvedimenti!

Come ogni volta, per fortuna, all'una e mezza c'è la salvifica pausa pranzo.


E' un'oasi di riposo mentale, una pausa rilassante che anticipa le pesantissime e inevitabili prove-intervista del pomeriggio.

A queste ci penseremo poi; ora concentriamoci sul cibo e sullo scazzo.

A tavola, se si potesse, ci distribuiremmo come nei pranzi dei vecchi manieri medioevali: a capo tavola i re o feudatari (nel nostro caso, capo area e direttore vendite), dall'altra parte in fondo e ben lontani, tutti noi mezzadri, servi della gleba, bassa manovalanza. Felici di stare in disparte. Invece qualcuno che si sacrifichi e stia vicino ai boss, ci vuole sempre. Per loro il pranzo non sarà molto rilassante: dovranno dosare parole e frasi, perché ciò che diranno sarà minuziosamente analizzato e reinterpretato, con rischi elevati per la loro reputazione.

Io, anche se mi tengo sempre a rispettosa (non sia mai!) ma elevata distanza dal pericolo, non riesco a rilassarmi completamente.

Sbriciolo il pane e spezzetto tutti i grissini, pensando e ripensando alla mia vita. Lavorativa, s'intende; l'altra, quella vera, qui non interessa.

Federico, come sempre sorridente e tranquillo (che rabbia!), si siede accanto a me.

“Che hai?”

“Nulla. I dati...”

“Ma se vai benissimo!”

“Sì ma, il cento che non è ancora cento... mi fa rabbia, ecco! Mi critico prima che lo facciano altri, che so useranno ben altri guanti!”

“Senti a me: meglio avere 99 che cento! Con il primo, puoi sempre migliorare, o promettere di farlo; con il secondo invece il peggioramento è inevitabile! Viviamo tutti appesi a un filo! Non parlo del destino, ma della sfiga! Se si potesse trasformare tutto in un algoritmo e andare a colpo sicuro! Pensa: introduci i dati e fai quello che dice il computer!”

Sorride e ordina un piatto di tortellini in brodo.

“Beh, il rischio è che poi facciano fare tutto a lui!”

“Ah, questo è inevitabile. Non ci pensare!”

Ci provo.

“Vabbè, chi se ne frega! Tortellini anche a me!”

La ribellione è appena cominciata!

Ma si sa, non tutte le rivolte riescono col buco: passata l'euforia iniziale e ripreso il lavoro di riunione, riaffiorano i soliti fantasmi, correlati, questa volta, con la verifica pratica pomeridiana.

Ogni volta la sede ci propina depliant illustrativi sui nostri farmaci, quelli da mostrare al medico, ipoteticamente diversi, tanto per far vedere che lavorano anche loro, ma invece drammaticamente uguali a se stessi. Cambiano solo i colori dei grafici e le facce, sempre sorridente, degli attori utilizzati come testimonial della bontà dei nostri prodotti.

Bambini sorridenti, bellissime mamme allegre, papà palestrati che saltellano felici. Niente pazienti non pazienti e incazzati perché gli passi davanti in ambulatorio; madri con figli urlanti al seguito che non ti fanno leggere il libro che ti sei portato dietro per rilassarti nell'attesa; pensionati ficcanaso che ti descrivono i loro mali concludendo che i farmaci fanno tutti male, anche i tuoi, salvo poi essere sempre dal medico a pretenderli. Tra quelle pagine patinate e luccicanti sfila un mondo inesistente, proprio come quello della pubblicità.

Ormai non ci faccio nemmeno più caso e passo oltre.

I problemi sono altri.

Il primo si materializza immediatamente.

“Rondoni, comincia tu che sei bravo!”, afferma il capo.

Io bravo? Ma dove gli è nata questa malsana idea? Abbozzo e comincio.

Non riesco a essere sufficientemente preciso né abbastanza furbo da fingere un'intervista plastificata e falsa come si meritano e, in fondo, pretendono: mi fermo e commento, esprimo dubbi, divago. La rendo utile, cioè, ma loro non vogliono questo. E' tutto preventivamente deciso, finto e inutile, ancor più oggi che c'è il direttore che guarda e ascolta.

Un'inutile pantomima, per nulla divertente.

Qualche collega, tra un'intervista e l'altra, tenta di allungare il brodo con domande e riflessioni: lo scopo è solo quello di evitare il suo turno, che tanto poi arriverà.

E' il cosiddetto 'Giro di tavolo', alla fine del quale saremo tutti solo più stressati e non avremo imparato nulla.

A conclusione della riunione, mi è rimasto in testa un l'obiettivo: arrivare a quel benedetto cento e farla finita, una volta per tutte!


Torniamo a oggi.

Sono di nuovo in auto e sto per partire per un'altra giornata di lavoro.

Il primo medico ha lo studio in un piccolo paesino, vicino alla farmacia.

Nella testa ho ancora ben chiara mia missione.

Controllo nella farmacia di cui sopra, e ho la conferma che il mio prodotto non va.

Allora mi precipito nello studio del medico, deciso a porre rimedio a questa situazione.

Non è il momento dei depliant illustrativi e delle belle parole, ma delle domande chiuse e delle promesse da ottenere a qualunque costo.

Quando chiedo ragione della situazione al medico, vedo i suoi occhi appannarsi.

Mi guarda in silenzio, poi prende tra le mani il campione del farmaco di cui chiedevo spiegazioni e lo getta nella mia borsa aperta. Quindi mi fa segno di uscire.

Capisco subito che ho fatto una cazzata. Lo conosco da anni e dovevo sapere che non era la persona adatta per una mossa del genere. La fretta, la paura, l'ansia del momento: tutte cattive consigliere. Esco mogio mogio, poi rientro, e gli chiedo scusa. Lui umanamente decide di concedermi una seconda possibilità.


A volte mi sento come Paperino in quel cartoon in cui deve impedire a una talpa di rovinargli il giardino, allora comincia a chiudere i buchi, ma sono troppi e la talpa gli esce fuori sempre da qualche parte. Sono sicuro che Paperino si è sempre sentito il numero 99.

Anche io ora mi sento così; so che questa sensazione si andrà stemperando, diluendosi negli impegni della giornata, anno dopo anno, ma, per un po’, mi sentirò come il numero che ambisce a essere cento senza riuscirci.



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